Era il 1996 quando un giovane regista di nome Alejandro Amenábar esordiva sullo schermo con una sorta di mistery thriller ai confini con l'horror chiamato Tesis. Al di là dei sette premi Goya a sancire la nascita di un nuovo talento registico, l'importanza di questo debutto ha una valenza ancora più significativa se si pensa che all'epoca un film di genere dalla confezione internazionale prodotto e girato in Europa rappresentava qualcosa di inedito e sensazionale, precursore di quello che poi è divenuto filone del cosiddetto nuovo cinema horror spagnolo.
Era dunque attesissimo questo ritorno alle origini di Amenábar che dopo aver esplorato diversi generi, dal dramma biografico di Mare dentro fino a quello epico storico di Agora, torna ad ripercorrere i sentieri che hanno segnato il suo debutto cinematografico.
La teoria della regressione
Regression, ovvero regressione, non è soltanto quindi un concetto della teoria topica psicoanalitica che vediamo applicata nel film, ma in questo caso assume simbolicamente per Amenábar il significato di ritorno, rivisitazione di quelle atmosfere di mistero, paura e suspense, quella contemplazione dell'orrore che ha contraddistinto gli inizi della sua carriera ed è culminata nel bellissimo The Others. Regression torna dunque ad esplorare i meccanismi della paura e i confini dell'oscurità dell'essere umano; ma non solo, qui ritroviamo in maniera prominente anche l'altro tema sempre presente stavolta in tutti i film del cineasta spagnolo, ovvero l'analisi della mente umana, dei suoi labirinti e della sua forza capace di condizionare e distorcere la realtà. La coesistenza tra realtà e sogno non la ritroviamo solo nelle algide tinte horror di The Others, ma naturalmente anche nelle atmosfere allucinatorie di Apri gli occhi: e anche Mare dentro, vincitore dell'Oscar come migliore film straniero, a suo modo é la storia di una mente capace di imporsi e di andare oltre le prevaricazioni e i limiti del corpo.
La paura come incubo collettivo
Con Regression si torna a mischiare un po' le carte, un thriller psicologico con elementi horror molto classici come il diavolo e il satanismo, che ruota comunque intorno alla complessità della mente umana e al concetto di paura; e di come come quest'ultima possa trasformarsi in un grande incubo collettivo. Ispirato ad eventi realmente accaduti conosciuti come 'Satanic Ritual Abuse', la parte più riuscita del film è forse proprio la ricostruzione dell'atmosfera di isteria collettiva che colpì e sconvolse molte zone della provincia americana tra gli anni '80 e '90 a seguito dell'ondata di accuse e confessioni di abusi sessuali e rituali satanici che distrussero intere famiglie; uno scenario di caos, superstizione e panico che i media e le indagini della polizia stessa contribuirono ad alimentare. Che sia il fanatismo della Chiesa Evangelica o quello dei parabolani di Alessandria d'Egitto di Agora poco cambia, quello che è evidente è che l'esaltazione di massa e le sue derive violente rappresentano una delle paure che più spaventano Alejandro e che oltretutto visti i tempi si rivela drammaticamente attuale. Amenábar sceglie come modello dichiarato, più nelle intenzioni che nel risultato, i thriller degli anni '70, di cui ritroviamo forse un certo elogio della lentezza nei movimenti di macchina nonché nel ritmo della narrazione.
Regressione sinonimo di involuzione
Il problema è che regressione nelle sue accezioni più negative del termine vuole anche dire proprio regresso e involuzione, e purtroppo sembra essere questo il sinonimo profeticamente più adatto per Amenábar nella circostanza. Non tanto dal punto di vista tecnico e stilistico, dove il regista conferma la sua eleganza nonché abilità nel creare atmosfere e giocare coi cliché, supportato da un fotografia eccellente e dalle ambientazioni pregne di plumbea inquietudine che rispecchiano l'oscurità in cui precipitano e si perdono le anime angosciate dei protagonisti.
Piuttosto delude sotto l'aspetto narrativo e della costruzione dei personaggi le cui azioni faticano sempre a risultare credibili: è poco convincente e tratteggiata in modo affrettato la parabola del detective Ethan Hawke che si ritrova da ateo convinto a divenire agnostico combattuto, fino a precipitare anche lui nella spirale del misticismo e della superstizione come il più fanatico dei believers. Così come poco credibile risulta Emma Watson come motore di una vicenda che non coinvolge e non sorprende, pagando anche il fatto di provare a mescolare tanti generi tutti insieme senza riuscire ad incarnarne nessuno. Tutta la storia sembra essere pensata, come accadeva del resto per The Others, per preludere ad un twist narrativo che stavolta è però ampiamente prevedibile e oltretutto volutamente anticipato, al punto di non poter neanche parlare di un vera e propria sorpresa finale rovinata, cosa che rende ancora più fragile e inutile l'intera messa in scena verso la quale, nonostante la pregevole confezione, si comincia a perdere pian piano un reale interesse.
Movieplayer.it
2.0/5