Siamo a Rostock, nella ex Germania dell'Est, alla fine dell'estate del 1992. Il quartiere di Lichtenhagen è percorso da una montante tensione xenofoba, che ha al suo centro la Sunflower House: un grande palazzo di 11 piani, che offre rifugio a famiglie extracomunitarie di varie etnie, dai rumeni ai vietnamiti. Le condizioni disumane di vita all'interno della struttura, la sporcizia e il degrado che la caratterizzano, esasperano i cittadini e sono al centro delle discussioni della politica, che tuttavia si mostra incapace di affrontare il problema.
Dentro e intorno all'edificio, si snodano tre storie: quella di Lien, giovane immigrata vietnamita impiegata in una lavanderia, che ha da poco ottenuto il permesso definitivo di soggiorno, e spera di programmare un futuro nel suo nuovo paese; quella di Stefan, diciassettenne sedotto da ideologie di estrema destra, che coi suoi amici si scontra con la polizia e progetta una spedizione punitiva contro i residenti della Sunflower; e infine quella di Martin, padre di Stefan e ambizioso politico locale, che vorrebbe risolvere il problema degli immigrati offrendo loro una sistemazione dignitosa, ma deve misurarsi con le resistenze e i giochi di potere del suo partito. Le vite dei tre personaggi si scontrano e collidono in un'unica, terribile notte: quella del 24 agosto, quando, durante lo sgombero programmato dello stabile, si scatenerà una violenza mai vista, segno di una tensione rimasta a covare per troppo tempo.
Sfumature di grigio
La prima caratteristica che colpisce di We are young. We are strong., nuovo lungometraggio del tedesco di origini afghane Burhan Qurbani, è la fattura delle sue immagini. Il bianco e nero neutro, naturalistico, della fotografia, si somma all'uso del formato 1.85:1, a trasmettere l'idea di uno sguardo essenziale, privo di fronzoli, sui suoi personaggi: l'immagine "imprigiona" nei suoi confini i tre protagonisti, e i personaggi che gravitano loro attorno, li segue costantemente, ne scruta i volti e i corpi, alla ricerca delle loro motivazioni. Ciò che il film sacrifica rinunciando al formato panoramico, lo guadagna con la costante mobilità della macchina da presa, in lunghi piani sequenza che lambiscono personaggi e ambienti, oggetti e luoghi quotidiani, che presto verranno trasfigurati da una violenza senza precedenti. Riflettendo la scelta di colorare di grigio l'immagine, la sceneggiatura rinuncia ad ogni manicheismo: l'onestà morale di Martin è contaminata, e infine piegata, dalla sua brama di potere, fino a doversi mascherare (letteralmente) per recuperare una parvenza di umanità; la violenza cieca di Stefan e dei suoi amici, moderni ribelli senza causa, nasconde lo sbigottimento per il crollo di tutti i punti di riferimento, di un sistema politico-economico che offriva un comodo riparo, il risveglio dal semplicissimo, (ir)ragionevole sogno borghese, espresso nelle loro stesse parole, di "una casa, una famiglia, un lavoro". Mentre quello di Lien, di sogno, altrettanto impossibile in una polveriera come quella in cui vive, è perseguito a costo di calpestare i diritti di una sua collega, che perde il posto a causa sua. L'innocenza, più che mai, non abita qui.
I colori del fuoco
Ma infine, quando la violenza a lungo trattenuta esplode, il regista sceglie di allargare l'immagine nel formato panoramico, e di recuperare al colore (col rosso delle fiamme a dominare il tutto) gli ambienti prima immersi nel grigio. Lo fa, intelligentemente, passando per il "filtro" dello sguardo televisivo, con un'intervista a Stefan e ai suoi amici, che dicono tanto senza dire apparentemente nulla: mostra di quella TV verità, che uno dei giovani acutamente chiama pornografica, che negli anni '90 raggiungerà (anche dalle nostre parti) il suo culmine. Si assiste, nell'ultima parte del film, a un rovesciamento del contrasto che ha finora caratterizzato la messa in scena: quello tra le dimensioni anguste dell'immagine e l'ariosità degli ambienti, esaltata dalla mobilità della macchina da presa. Ora, al contrario, il cinemascope esalta la claustrofobia di una casa/carcere divenuta trappola mortale, e di una piazza popolata da esseri umani oscenamente tramutati in belve. Una massa informe, affabulata dalla narrazione senza tempo del capro espiatorio, all'interno della quale vanamente si nasconde il padre di Stefan, tardivamente deciso a tornare padre, oltre che uomo di potere. Il ritmo del film progressivamente cresce, adeguandosi alla furia convulsa dei soggetti ripresi, deflagrando letteralmente nella parte finale. Alla fine, sulle ceneri di un palazzo (e di un'umanità) che brucia, resta la vana ricerca di risposte. Con un unico, piccolo gesto da cui (forse) ripartire: quello della ex collega di Lien, che dimentica il torto subito e dimostra di possedere ancora la capacità di empatizzare. Non molto, ma probabilmente abbastanza per tentare di (ri)costruire una qualche convivenza.
Conclusioni
Presentato in concorso nella nona edizione del Festival del Film di Roma, We are young. We are strong. è lucido racconto di una violenza sconvolgente, significativa e rigorosa descrizione di un passato recente, che si fa monito per un presente più che mai contraddittorio. Una visione, oggi più che mai, necessaria.
Movieplayer.it
4.0/5