Essere o non essere, questo è il trucco per sopravvivere
Assistere alla proiezione sul grande schermo di una pellicola storica risalente al 1942 è un'emozione che non ha prezzo. Lo stupore di fronte al bianco e nero un po' sgranato lascia immediatamente il posto alla sensazione di essere stati catapultati in un'epoca in cui il cinema era ancora in profonda sperimentazione con se stesso, riuscendo, passo dopo passo, a costruire la più proficua e coinvolgente fabbrica dei sogni. Così, nonostante si sia ormai abituati al sensazionalismo visivo del 3D, di fronte al restauro di To be or not to be, in Italia arrivato con il titolo di Vogliamo vivere, si cade inesorabilmente vittime del fascino biondo di Carole Lombard, dell'ironia egocentrica di Jack Benny e, più di ogni altra cosa, del ritmo travolgente di un film firmato Ernst Lubitsch. Nel caso remoto in cui si ignorasse il valore artistico del suo lavoro, possiamo solo dire che ci troviamo di fronte all'uomo che ottenne il rispetto di più generazioni di registi tra cui Orson Welles, Frank Capra, François Truffaut e il diretto "discepolo" Billy Wilder. Ma, più di ogni altra cosa, Lubitsch può essere considerato senza alcun ombra di dubbio uno dei fondatori più attendibili della screwball comedy che, attraversando epoche e linguaggi diversi, alla fine degli anni ottanta è arrivata fino a New York per far incontrare un cinico Harry con una Sally ad alto mantenimento.
Così, organizzando una vera e propria battaglia dei sessi impreziosita da situazioni bizzarre, dialoghi dal ritmo incalzante e un umorismo raffinato, quest'artista di nascita tedesca è riuscito a conquistare il cinema americano ancor prima che scoprisse di avere una "voce". Inoltre, andando oltre la voluta leggerezza esibita dai prodotti hollywoodiani per alleviare l'animo del pubblico nei non facili anni trenta e quaranta, il regista de Il principe consorte e Un'ora d'amore tentò con successo di attribuire un valore culturale alla risata. Perché se è vero che "non si sputa mai sopra una bella battuta", è sicuramente più interessante trasformarla in un veicolo di satira sociale o politica. Questo è quanto Lubitsch ha sperimentato in Vogliamo vivere, commedia di sottintesi, in cui gli artisti si fanno portavoce di una vera e propria chiamata alla resistenza in difesa di una cultura europea che, tra palcoscenico e realtà, si trova a subire l'oppressione dell'oscurante dittatura nazista. Infatti, realizzato dopo l'attacco a Pearl Harbour e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti, il film, come Il grande Dittatore di Chaplin, esprime un chiaro messaggio interventista utilizzando, solo, in apparenza, tutto il leggiadro e impalpabile spirito narrativo di cui è dotato il Lubitsch touch. Per questo motivo la pellicola, concentrata sull'attività di un piccolo gruppo teatrale di Varsavia costretto a mettere da parte le proprie ambizioni interpretative dopo l'invasione tedesca, costruisce un vero e proprio gioco di specchi in cui all'artista è offerto il compito, come ricordava Edoardo De Filippo, di "vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male". Così, proprio agli attori, ai protagonisti dell'irreale, ai sacerdoti di una perenne mistificazione il regista affida l'onere non solo di immergersi nella realtà più pericolosa, ma di affiancare e sovrapporsi al nemico per portare a termine un'importante e realistica rappresentazione della loro vita. In questo modo, forse per la prima volta, la commedia mostra tutto il suo potenziale narrativo offrendo all'intelletto la possibilità di trionfare sull'oppressione più cieca con astuzia e malizia. L'importante, però, come per il protagonista Joseph Tura, è di non strafare cedendo alla voglia di una glorificazione personale, ma celare le proprie intenzioni sotto un vago e ineffabile sorriso. Perché molto, e forse di più, può essere detto e mutato attraverso il fragore liberatorio di una risata.
Movieplayer.it
5.0/5