All'origine di The Knife That Killed Me, produzione indipendente britannica presentata in concorso nella sezione Alice nella Città alla nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, vi è l'omonimo romanzo di Anthony McGowan, la cui trasposizione sul grande schermo è stata curata dal regista teatrale Marcus Romer insieme a Kit Monkman, al loro debutto dietro la macchina da presa.
E il background teatrale dei due novelli cineasti appare evidente fin dalle scelte di messa in scena della pellicola, girata interamente su green screen con la sovrapposizione di scenari fittizi, ma soprattutto dominata da un senso di straniamento che accentua ancor di più il carattere 'artificiale' della narrazione, sospesa fra analessi e squarci visionari, in un lungo flashback rievocato dalla voce del protagonista.
Un microcosmo tra freaks e teppisti
La focalizzazione del racconto, infatti, coincide con il flusso di pensieri e di coscienza di Paul Varderman (Jack McMullen), teenager britannico, introverso e disadattato, che ha appena fatto il proprio ingresso in un nuovo istituto scolastico. All'interno del liceo, in una realtà sociale riconducibile - o almeno così lascia intuire il film - a sobborghi periferici e a situazioni di arretratezza e di diffuso malessere, Paul si ritrova coinvolto nella rete di rivalità fra diversi gruppi di coetanei, la cui identità individuale pare inscindibile rispetto alle dinamiche collettive e ai rapporti di potere esistenti in questo microcosmo selvaggio e senza regole. Un microcosmo diviso tra i cosiddetti freaks, ovvero i ragazzi più emarginati ma al contempo contraddistinti da una personalità più spiccata, e la piccola gang comandata dal bieco Roth (Jamie Shelton), il quale deciderà di prendere il neo-arrivato Paul sotto la propria ala, benché il giovane nel frattempo frequenti anche il club dei freaks e mostri un tenero interesse nei confronti della compagna di classe Serena (Haruka Abe).
Sperimentalismo privo di sostanza
Lo sfondo delle vicende è costantemente immerso in una tenebra che desatura i colori e conferisce alla storia un'atmosfera opprimente e quasi apocalittica, rimarcando sul piano visivo e cromatico il sentimento di angoscia di Paul, una "voce dall'oltretomba" (o perlomeno così ci suggerisce l'incipit del film) sotto il segno di un fato ineluttabile. L'impostazione stilistica e concettuale di Marcus Romer e Kit Monkman sembra dunque improntata ad un coraggioso sperimentalismo, non privo di efficaci suggestioni, senza tuttavia compromettere la sostanziale linearità cronologica dell'intreccio. I due registi e sceneggiatori vorrebbero elaborare una riflessione sulla violenza come impulso endemico alla natura umana, distaccandosi da interpretazioni sociologiche o psicanalitiche per riallacciarsi invece ad una dimensione 'assoluta' che permette di inserire The Knife That Killed Me in quel medesimo filone al quale appartiene anche lo scioccante Confessions di Tetsuya Nakashima. La differenza è che, nella pellicola di Romer e Monkman, all'enfasi drammatica della messa in scena non corrisponde un'adeguata solidità a livello concettuale: purtroppo i due registi non riescono ad elaborare una reale riflessione sui temi dell'odio e della violenza e non giustificano i 95 minuti di durata della pellicola, fra prolissità e cali di ritmo.
Conclusioni
Caratterizzato da una costruzione sperimentale delle immagini e delle singole sequenze, nonché da un intrigante amalgama fra realismo e toni onirici (benché sempre in bilico fra innovazione e semplice maniera), il film d'esordio di Marcus Romer e Kit Monkman sconta un'intrinseca debolezza strutturale e contenutistica che gli impedisce di colpire davvero a fondo; lasciando al contrario l'impressione, a visione ultimata, di aver assistito alla canonica "montagna che partorisce il topolino".
Movieplayer.it
2.5/5