Precari ma consapevoli
Valerio è un giovane attore squattrinato, che passa da un provino all'altro nell'attesa (sempre vana) di un'occasione che trasformi il suo sogno di dedicare la vita alla recitazione in una concreta opportunità di lavoro. Il giovane sopravvive, male, con un lavoretto part time in un fast food, insieme alla compagna Serena, studentessa; Valerio, però, è spesso costretto a chiedere soldi in prestito a sua sorella Giovanna, massoterapista che ha l'ambizione di diventare una chef di cucina cinese. Scheggia, invece, ha le idee chiare su ciò che vuole fare della sua vita; piccolo spacciatore locale, il ragazzo vuole espandere la sua attività, specie ora che ha preso contatti con un malvivente cinese per un promettente affare. Proprio per una consegna a quest'ultimo, Scheggia chiede aiuto all'amico Valerio: questi dovrà soltanto recarsi a casa dell'asiatico e consegnare nelle sue mani la droga, nascosta in un maneki neko, il gatto della fortuna giapponese. A casa del malvivente, però, Valerio incontra Mei Mei, giovane prostituta di cui evidentemente il cinese è il protettore. Osservando lo stato di schiavitù in cui versa la ragazza, Valerio ne resta turbato, e inizia a pensare di aiutarla...
Mandare in sala un film come Spaghetti Story il 19 dicembre, contemporaneamente alle grandi uscite natalizie, è certo una bella scommessa. L'esordio nel lungometraggio di Ciro De Caro, già visto in alcuni festival indipendenti italiani e internazionali (tra questi, il Rome Independent Film Festival e il Moscow International Film Festival) godrà infatti di un circuito distributivo non paragonabile a quello dei suddetti "giganti", ma comunque più esteso di quello tradizionalmente riservato alle uscite di Distribuzione Indipendente (etichetta di cui il film va ad aprire il catalogo annuale). Quello di De Caro, regista romano proveniente dalla pubblicità, è un esordio interessante per molti versi: il suo ritratto, in forma di commedia, di certa realtà generazionale sospesa tra aspettative e disillusione, cinismo e (finta) sicurezza nei propri mezzi, funziona e colpisce nel segno. Il regista romano non ha l'ambizione di fare un ritratto generazionale, non declama e non si lancia in spaccati sociologici sui 30-40enni di questo decennio: e fa bene, considerato che il nostro cinema mainstream, quei registri li ha abbondantemente usati, con risultati quasi sempre di ben scarso rilievo. La dimensione del ritratto offerto da De Caro è piccola, legata alla realtà romana in alcuni tratti idiosincratici (vedi il personaggio di Scheggia, interpretato da Cristian Di Sante), esplicitata nella quotidianità di quattro giovani, sempre in bilico tra l'ottimismo della volontà e la rassegnazione a una perenne precarietà esistenziale. Il principale punto di forza di Spaghetti Story sta in una sceneggiatura ben scritta, opera del regista e della compagna (presente anche nel cast nel ruolo di Giovanna) Rossella D'Andrea; uno script credibile nei suoi toni apparentemente leggeri, funzionale a far emergere la dimensione collettiva delle storie dei protagonisti, attraverso il racconto delle loro piccole, e spesso divertenti, vicende personali. La recitazione dei quattro interpreti principali fa il suo, con un cenno particolare al già citato Cristian Di Sante; il personaggio di Scheggia coglie e restituisce perfettamente i tratti di certa "romanità" di periferia, riprodotti sullo schermo con una naturalezza invidiabile. La messa in scena è semplice, forse eccessivamente piana: e proprio in questo potrebbe risiedere, invero, l'unico limite del film di De Caro, in larga parte consistente in lunghi piani sequenza frontali, spesso interrotti dalla tecnica del jump-cut, con pochi, veri guizzi di regia. La riuscita del film si affida, piuttosto, alla funzionalità di singole sequenze (divertenti e argute quelle dei due colloqui di lavoro di Valerio, personaggio che ha il volto di Valerio Di Benedetto) nonché alla già citata pregnanza dello script, e all'affiatamento tra i quattro interpreti. De Caro sacrifica forse qualcosa a livello di ritmo, affidandosi in modo eccessivo alla qualità della sceneggiatura, facendo "decollare" il film solo in un'ottima parte finale (da alcuni criticata durante la conferenza stampa di presentazione: non siamo d'accordo). Qui, la dimensione emotiva (quasi melò) già presente ma trattenuta per tutto il resto della pellicola, prende il sopravvento; fino a un happy ending che in realtà è auspicato, più che mostrato. Nonostante il fatto innegabile che, come ha affermato il regista, "la vita non abbia un finale", questa finestra di 85 minuti sulla vita di quattro individui si chiude, per noi e per loro, in modo soddisfacente. Le loro successive esistenze, certo ancora precarie, ci piace ora immaginarle un po' (ma solo un po') più consapevoli.
Movieplayer.it
3.0/5