Raccontare, per immagini, la vita di Franco Califano: un compito sicuramente non facile, per le peculiarità del personaggio, per la sua naturale tendenza a dividere (fan devoti da una parte, detrattori - personali più che artistici - dall'altra), per la lunga carriera che il cantautore romano ha avuto e per i rischi (di macchiettismo da una parte, e di un eccessivo patetismo dall'altra) che un soggetto del genere portava con sé. Un'impresa che, tuttavia, il regista Stefano Calvagna non ha esitato ad abbracciare: un po' per il suo essere, per sua esplicita ammissione, grande fan e amico di Califano (da ricordare un film-concerto realizzato da Calvagna per i 70 anni del cantautore, e la scelta di un suo brano per il recente Rabbia in pugno); un po', forse, per l'affinità che il regista da sempre sente con Califano, outsider sui generis come lui, mosso da un approccio alla vita, all'arte e al rapporto con i suoi fruitori, che trovano più di un punto di contatto col cinema di Calvagna.
Quest'ultimo, nella complessità ed eterogeneità del materiale a disposizione, ha optato da par suo per una scelta precisa: raccontare solo l'ultima parte della vita del cantautore, quella che il regista ha chiamato "terza vita": caratterizzata dal tentativo di risalita alla ribalta delle scene, dopo un periodo di offuscamento, ma anche dall'apparire di quella malattia che lo avrebbe portato alla morte nel 2013. D'altronde, come ammesso dallo stesso Calvagna, "per raccontare l'intera vita di Califano non sarebbe bastata una fiction in sei puntate". Scelta quasi obbligata, quindi, ma forse, per certi versi, ancora più rischiosa.
Fuori e dentro il personaggio
Chi scrive, deve ammetterlo, ha avuto una certa perplessità a vedere Gianfranco Butinar apparire sullo schermo nei panni del protagonista: evidente, malgrado il makeup e l'abilità vocale di Butinar, la differenza di età col personaggio, un po' frastornante la consapevolezza di stare assistendo a un'interpretazione nata, nelle sue basi, da un'imitazione (pur abbondantemente collaudata); ovvero da una forma di rappresentazione basata su principi molto diversi dalla prova attoriale. Eppure, superato l'impatto iniziale, la prova di Butinar funziona: non ricercando un'impossibile aderenza mimetica al personaggio, l'attore trova una sua via alla resa scenica di Califano, sottolineandone con toni differenziati i momenti pubblici e quelli più intimi, rendendone bene i sentimenti contrastanti verso collaboratori, amici e conoscenze più o meno occasionali (e non sempre gradite). Intorno a Butinar, un efficace gruppo di comprimari, il cui peso scenico si va differenziando durante l'evolversi della sceneggiatura: dall'iniziale, costante presenza dell'impresario interpretato da Enzo Salvi, dell'amico fraterno col volto di Franco Oppini e del road manager interpretato dallo stesso regista, al lento "stringersi" dell'obiettivo su Butinar e su Nadia Rinaldi, nei panni dell'amica che sceglierà di trasferirsi in casa del cantautore, e di occuparsi di lui nell'ultimo periodo della sua vita. Da non dimenticare, inoltre, la presenza di un Michael Madsen che, nei panni di un organizzatore internazionale di concerti, massimizza al meglio i pochi minuti in cui è in scena: con un dialogo particolarmente ben scritto, che, malgrado i limiti del doppiaggio, colpisce per intensità.
Una biografia in melò
Accompagnato, lungo tutta la sua durata, dalle composizioni di Califano (perlopiù con la voce di Butinar nelle parti cantate, altre volte con un nuovo arragiamento in versione strumentale) Non escludo il ritorno ha un'anima melò che non si vergogna di esibire. L'approccio "di pancia", istintivo, immediato, che da sempre il regista mostra nei confronti del materiale che tratta, viene qui spostato sul piano di un biopic dedicato a un personaggio particolarmente amato. Un'opera che è per metà racconto biografico, ma per l'altra metà, appunto, dedica. Così Calvagna, nella posizione del narratore che è anche (e soprattutto) fan, non ha paura di immergersi nel fiume delle emozioni, di raccontare l'uomo, nel suo privato, con sguardo partecipe, caldo, empatico. Nel sintetizzare, in poco più di novanta minuti, quello che resta comunque quasi un decennio di vita del personaggio, la sceneggiatura evidenzia lo iato, la drammatica frattura tra l'enorme vitalità dell'uomo, la sua rinnovata voglia di dire la sua in un panorama che lo aveva emarginato, e la durezza della malattia che lentamente ne mina le forze. Da questo, fuoriesce un ritratto intimo ma sfaccettato, che non esclude i momenti pubblici (il confronto sanremese con la giornalista, l'infelice episodio della richiesta della legge Bacchelli) pur concentrandosi progressivamente, e in misura sempre maggiore, sul privato del personaggio; nonché sul suo modo peculiare, all'insegna di un disincanto e di un cinismo un po' sghembi, di affrontare il destino che gli si para davanti. Un ritratto che comunque riesce a evitare le trappole dell'agiografia, e che schiva anche uno sguardo giudicante su personaggi (quali l'impresario interpretato da Salvi) che potevano essere facile oggetto di stigma.
Il carattere indipendente e low budget del progetto, e le peculiari condizioni realizzative (poco più di due settimane di riprese, a quanto rivelato dal regista) permettono agevolmente di passare sopra ad alcuni errori o anacronismi (gli improbabili smartphone dal design moderno nel 2004, l'intravista locandina di 12 anni schiavo in una scena in esterni); e di concentrarsi sull'evidente sincerità di intenti che muove l'intera operazione. Che riesce a coinvolgere, con semplicità ed efficacia, anche chi non fosse un conoscitore, o un appassionato, della musica di Califano.
Conclusioni
Biopic sentito, fortemente voluto dal suo regista, dal tono in linea col personaggio che racconta, Non escludo il ritorno è forse il miglior film di Calvagna; i fan di Califano, ma anche gli amanti di un cinema immediato e fatto di emozioni forti, che predilige l'impatto d'insieme ai dettagli, non dovrebbero restarne delusi.
Movieplayer.it
3.5/5