Nei Quartieri Spagnoli di Napoli, seguiamo le vite di sette ragazzi che cercano di non piegarsi alla logica della violenza, dell'illegalità e della sopraffazione in mezzo alla quale sono cresciuti. Carmine, Gianni, Mariano, Giuseppe, Luca, Gennaro ed Antonio hanno costruito quella che loro chiamano "una batteria del bene": laddove, nel linguaggio camorristico, la batteria è il gruppo di fuoco, quello che ha l'incarico di "fare il morto", loro cercano di resistere e dimostrare, a loro stessi e alla gente intorno, che anche nella realtà dei Quartieri un altro modo di vivere è possibile.
Carmine, il più carismatico, è quello che infine "ce la farà", riuscendo a ottenere un ruolo nella fiction Gomorra e divenendo una celebrità locale; Gianni è figlio di un ex boss che ha "dato le dimissioni" e ora vive a Roma; la sua principale preoccupazione è quella di capire che uomo è, davvero, quel padre con cui ha potuto avere solo contatti sporadici. Tra i loro amici, c'è chi si arrangia facendo il parcheggiatore abusivo, chi ha (ri)provato a studiare nonostante tutto, chi è disoccupato ma non si è ancora arreso; in mezzo, discussioni anche animate su quanto, davvero, essere nato nei Quartieri sia una condanna senza appello, e quanto invece, anche laggiù, prendere in mano il proprio destino sia un diritto e un dovere.
Cinema verità, in prima persona
Animatore del progetto Figli del Bronx, realtà locale impegnata nel sociale (con particolare attenzione alle situazioni più problematiche del territorio partenopeo) Gaetano di Vaio, in opere come Largo Baracche, parla e lavora con cognizione di causa. Il regista napoletano, infatti, ha conosciuto in gioventù la realtà della strada, della micro-criminalità e del carcere: uno dei momenti più interessanti di questo suo nuovo documentario, infatti, è proprio quello in cui lo vediamo intervistato, più giovane di 25 anni in mezzo a un gruppo di coetanei, parlare di droga e di spaccio, di leggi repressive, di assenza dello Stato. Discorso fondato ma inevitabilmente auto-assolutorio: contraltare di quel ragionamento tramite il quale, un quarto di secolo dopo, una ragazza dei Quartieri metterà i suoi coetanei con le spalle al muro, ricordando loro che l'ambiente sociale è una gabbia da cui, se si vuole, ci si può liberare. A prescindere dal suo risultato artistico, non si può non cogliere l'assoluta urgenza divulgativa, la prepotente, quasi primitiva istanza di comunicare che anima tutto il film di Di Vaio: ricordando il se stesso di tanti anni prima, il regista fa parlare, come in uno specchio, quei giovani che forse, ora, hanno una possibilità in più di non ripercorrere i suoi stessi passi. Uno specchio imperfetto, quindi, scheggiato: quelle schegge da cui, forse, un territorio apparentemente senza speranza può ripartire.
I margini si allargano
Nella sua struttura frammentaria, Largo Baracche gode quindi di una forza espressiva semplice quanto innegabile, chiede attenzione e partecipazione allo spettatore, pretende che vi si entri e si comprendano vite ai margini quanto ansiose di spiegar(si), comunicare, capire. Gli stretti vicoli dei Quartieri, martellati dal rap della colonna sonora, trasmettono davvero l'idea di una claustrofobica prigione; una prigione nella quale, tuttavia, non è impossibile ragionare di speranze e disillusioni, di possibilità e stigma sociale, di condanna e possibile redenzione. C'è spazio persino per una riflessione sui massimi sistemi, per le colpe di Mussolini e di Stalin, per i concetti di corresponsabilità o costrizione; laddove con questi ultimi, nella realtà minuta dei protagonisti, si deve fare i conti quotidianamente, tutti i giorni. E poi, una tenera scena di vita familiare, quella in cui O'Mericano, il parcheggiatore abusivo, rivela a sua moglie la salata multa rimediata per la sua attività, e vede (e sente) il calore della famiglia lenire la ferita. Cosa importa se la macchina da presa di Di Vaio stesse riprendendo, in quel momento, uno sfogo reale, una sua replica, o un ibrido tra le due cose? E poi, testimonianze di boss "dimessi" (in primis quella, differita, di Mario Savio, padre di Gianni), ricordi di un'infanzia contaminata dalla ferocia, auspici di vedere che mondo c'è là fuori, oltre Napoli: la claustrofobia si apre e si dilegua quando due dei protagonisti sono in spiaggia, al tramonto, a pescare e immaginare un'esistenza diversa. Quel cavallo meccanico costruito dai ragazzi, e portato in giro per le strade cittadine, vale come una promessa, un auspicio che neanche la notizia del nuovo arresto di Savio, importante punto di riferimento per il progetto, può valere a sminuire.
Conclusioni
Problematico nei temi, "punk" e istintivo nella realizzazione, figlio di quell'immediatezza che riflette la vita e l'attitudine dei suoi giovani protagonisti: Largo Baracche offre un ritratto in cui allo spietato realismo si mescola una primitiva, vitale spinta verso la trasformazione. O, almeno, all'auspicio concreto di quest'ultima. Basta ciò a fargli meritare una visione attenta e (inevitabilmente) partecipe.
Movieplayer.it
3.5/5