Recensione L'uomo con i pugni di ferro (2012)

L'esordio alla regia del rapper RZA, prodotto da Tarantino, omaggia in modo divertito i classici kung fu movie degli anni '70: la narrazione è certo un po' esile, ma l'intrattenimento non manca.

Il furore della Cina a ritmo di rap

A Jungle Village, in una Cina ancora feudale, vive un fabbro che si fa chiamare semplicemente Blacksmith. L'uomo, ex schiavo di colore fuggito dall'America, fabbrica micidiali armi per qualsiasi committente, siano anche clan tra loro contrapposti. Un giorno, il villaggio si trova al centro di una grave minaccia: quando il clan dei Lion riceve il compito di scortare un carico d'oro destinato a passare per il villaggio, il saggio leader White Lion viene tradito e assassinato da due suoi luogotenenti, Silver Lion e Bronze Lion. Il figlio dell'uomo ucciso, Zen Yi, si dirige così verso Jungle Village in cerca di vendetta, mentre molti clan rivali, venuti a conoscenza degli eventi, si scatenano per mettere le mani sull'oro. Nel frattempo, nel luogo fa la sua apparizione anche un misterioso cacciatore di taglie britannico, di nome Jack Knife.
Il rapper RZA, leader del Wu-Tang Clan, flirta da anni, con successo, col cinema. Non solo l'artista, al secolo Robert Diggs, è stato autore di un gran numero di colonne sonore (memorabili gli score di Ghost Dog - Il codice del samurai e Kill Bill: Volume 1) ma ha moltiplicato anche, nell'ultimo decennio, le sue apparizioni come attore: tra queste vanno ricordate almeno quelle in Coffee & Cigarettes (sua seconda collaborazione con Jim Jarmusch) e in American Gangster di Ridley Scott. Il salto dietro la macchina da presa, per un personaggio così poliedrico, ma al tempo stesso così attratto dal cinema, era quasi scontato. L'ingresso alla corte di Quentin Tarantino è stato il viatico che ha permesso al rapper di dirigere questo esordio, uno di quei prodotti che presentano quel sapore citazionista, e divertitamente retro, da sempre amato (e spesso incoraggiato nei film da lui prodotti) dal regista di Django Unchained.


In effetti, L'uomo con i pugni di ferro si muove nel solco dei derivati del dittico Grindhouse, tra cui troviamo i vari Machete (e relativi sequel) nonché prodotti minori quali il poco riuscito Bitch Slap - Le superdotate. Rispetto a quest'ultimo, tuttavia, ben altre sono le dimensioni del progetto: ad affiancare Tarantino nella produzione c'è un altro nome "pesante" come quello di Eli Roth (anche co-sceneggiatore) mentre nel cast troviamo, tra gli altri, una star come Russell Crowe, nel ruolo del killer Jack Knife. La squadra messa insieme da RZA ha dato vita ad un prodotto semplice, obiettivamente esile nella sua struttura narrativa, ma divertente e dall'anima sinceramente cinefila. Inutile specificare che il genere omaggiato (esplicitamente) dal regista è qui il gongfupian della Hong Kong che fu: l'ambientazione, e il mood che si respira nel film, sono quelli delle pellicole della Shaw Brothers degli anni '60 e '70, dei film di Chang Cheh e Liu Chia-Liang, di quelle opere attraverso le quali, per un certo periodo (i primi anni '80) nel nostro paese si aprì una piccola finestra sul cinema popolare di Hong Kong, tramite la programmazione delle tv locali.
Se l'operazione portata avanti dal neo-regista è lontana anni luce sia da quelle messe in atto da Tarantino (per consapevolezza e portata teorica del discorso) sia dalle già citate pellicole di Robert Rodriguez (per estro e fantasia visionaria) va detto che questo L'uomo con i pugni di ferro ispira comunque simpatia. RZA, pur con una certa ingenuità naif, sembra aver metabolizzato bene tutto il cinema che omaggia, e lo ripropone sì con un'estetica aggiornata al cinema d'oggi (c'è molto digitale) ma anche con uno spirito assolutamente fedele ai suoi modelli. Le scenografie, il modo di riprendere i combattimenti (le coreografie sono dell'hongkonghese Corey Yuen) lo stesso stile di recitazione, sono altrettanti omaggi a un cinema genuinamente popolare, troppo spesso dimenticato dalla critica, compresa quella più attenta ai generi. Il regista calca spesso la mano sul gore e sull'iperrealismo sanguinolento nei combattimenti: ma questa scelta, considerato il clima ludico e autoironico che si respira lungo tutta la pellicola, non disturba affatto. Vedere arti e teste mozzate, sventramenti, nonché i classici geyser di sangue che Tarantino riprese dal giapponese Lady Snowblood, è in fondo coerente con lo spirito della pellicola: un intrattenimento onesto, che passa (anche) attraverso l'arma dell'eccesso visivo.

Certo, si può obiettare, con qualche ragione, sull'evidente esilità della narrazione: la vicenda di tradimento e vendetta al centro della trama sembra a tratti un mero pretesto, mentre certi passaggi cruciali sono gestiti in modo palesemente affrettato. Un personaggio come quello di Crowe (che offre una prova ricca di gigionesca autoironia) poteva probabilmente avere più spazio, mentre lo stesso regista, nel ruolo del fabbro protagonista, non brilla propriamente per espressività. Eppure, la regia si rivela attenta e vivace, evitando di eccedere in espedienti un po' modaioli (lo split screen, usato solo in poche sequenze) e gestendo al meglio le tante sequenze d'azione disseminate nella pellicola. Al termine dei novanta minuti, per una volta, c'è un po' di rimpianto: al fan (anche lui un po' ingenuo) del gongfupian che fu, sarebbe piaciuto vedere qualche minuto in più di botte, sangue a fiotti e acrobazie. La prevista Unrated Cut, già inserita nell'edizione home video americana (che presenta circa 12 minuti in più) si incaricherà presto di rimediare.

Movieplayer.it

3.0/5