Teorema del principe azzurro e del sesso disinibito
Che il sesso riesca a rendere più interessante qualsiasi prodotto è un dato di fatto, se poi viene declinato al femminile con qualche accenno di rapporto saffico o dominazione il successo tra il pubblico è pressoché assicurato. Un teorema, questo che, dopo aver dimostrato la sua infallibilità applicato ad un fenomeno editoriale piuttosto scontato come Cinquanta sfumature di grigio, si prepara a "benedire" anche l'esordio alla regia di Francesca Muci con L'amore è imperfetto. Senza alcun dubbio intorno a questo film, nato come appendice dell'omonimo romanzo, si potrebbero alzare infinite discussioni riguardo all'opportunità di un sesso così esplicito o sulla condivisione a tre di una passione troppa ambigua per il cinema italiano. Tutte considerazioni, però, destinate a lasciare il tempo che trovano, visto che la natura del film, mascherata dietro una forma solo in apparenza disinibita, rimane attaccata ad una tradizione melodrammatica ed esistenziale di donne perennemente allo sbaraglio che nell'amore trovano il loro unico punto fermo. Quindi, tralasciando di porre l'accento sull'evidente inadeguatezza dei nostri autori nell'usare i corpi e la loro nudità senza alcuna riserva culturale, i mali che affliggono il film della Muci si concentrano tutti in una sceneggiatura in cui personaggi, dialoghi e situazioni si vestono di una leggerezza che, nel migliore dei casi, diventa sinonimo di superficialità e mancanza di realismo. Un risultato che lascia stupiti se si pensa che a strutturarla a quattro mani siano stati proprio la neo regista, già scrittrice, e uno sceneggiatore di esperienza come Gianni Romoli.
A risentire maggiormente di questa inconsistenza è proprio il personaggio centrale di Elena che, con la sua natura nevrotica esibita con costanza, propone un ritratto femminile irritante e indefinito. Trentacinquenne di bell'aspetto con un appartamento moderno e raffinato, nonostante lavori solamente come correttrice di bozze, continua ad osservare le ferite di un amore di gioventù che l'ha segnata nel profondo. A distruggere i suoi sogni romantici e l'immagine di un principe azzurro è Marco, fotografo dal fisico statuario e dalla bellezza quasi irreale che desidera diventare padre, anche se preferisce gli uomini alle donne. Così, dopo essersi risvegliata bruscamente dalle illusioni adolescenziali ed aver comunque concesso al fidanzato "imperfetto" il piacere della paternità, ad Elena non rimane che girare le spalle al passato e gestire la frustrazione in compagnia di un'amica in preda a sommovimenti ormonali per un ragazzino di vent'anni. Ed è a questo punto che nella sua vita entrano casualmente il maturo Ettore, produttore discografico dall'accento parigino, e l'adolescente Adriana, disinibita fino al paradossale, con cui inizia una relazione sicuramente non programmata. Posto che non esiste alcuno scandalo nel rapporto lesbo e che un autore è libero di considerare ogni tipo di tematica, è chiaro che la differenza viene fatta da come si decide di raccontare una vicenda. In questo caso la "voce" narrante, ossia quella di Elena, è costantemente imprecisa e discontinua dando sfogo ad una personalità ancora in costruzione disposta a chiudere gli occhi sulla realtà, soprattutto se si tratta di un compagno dichiaratamente omosessuale. Il risultato, però, è un non personaggio, ossia una protagonista così poco definita da non avere controllo su azioni e parole. Al posto di una donna moderna che accetta di essere messa a confronto con i normali tormenti della vita, la regista pugliese ci offre l'immagine distorta di una femminilità priva di volontà. Elena non cammina ma si lascia sospingere dal caso, al prendere decisioni preferisce il "subire" gli eventi fino a diventarne vittima. Anche la sua rivoluzione sessuale non nasce dalla libera scelta ma dalla volontà di altri. Accanto a lei, sempre bisognosa di essere salvata e presa per mano, la regista costruisce un'umanità varia che, partendo dalla disinibita promiscuità adolescenziale fino ad arrivare all'esperienza dell'uomo maturo venuto a patto con le proprie disillusioni, contribuisce a costruire un insieme di luoghi comuni senza fine. Partendo da questi presupposti, dunque, la gioventù non poteva che essere tatuata e problematica, mentre l'età della ragione ha il volto segnato dalla saggezza e il rimpianto di una paternità poco sentita. A rendere armonioso e credibile questo insieme di eventi e personaggi astratti non basta nemmeno il naturale brio di Anna Foglietta che, nonostante i tentativi di rappresentare una nuova generazione di donne, improvvisamente si trova dirottata verso la soluzione più prevedibile, ossia la maternità. Così, dopo aver dichiarato la volontà di raccontare per una volta un personaggio femminile fuori dai canoni e dai ruoli ben definiti imposti dal cinema italiano, la Muci cade in tentazione e lascia che la sua Elena trovi le risposte agli affanni esistenziali nel diventare nuovamente compagna e madre. Tanto per dire che, se questa è la modernità narrativa cui può ambire il nostro cinema, in futuro sarebbe il caso di guardare alla tradizione con maggior simpatia.
Movieplayer.it
2.0/5