Le danze della decadenza
Comincia e finisce con la luce verde, distante e ammantata nella nebbia, il nuovo film di Baz Luhrmann, Il grande Gatsby. Inizia e finisce con la voce narrante di Nick Carraway e le immortali parole di F. Scott Fitzgerald, e d'altronde non potrebbe essere altrimenti: nonostante l'inconfondibile e imponente cifra estetica imposta fin dall'inizio dal regista, il cuore pulsante del film continuano ad essere i temi, ancora oggi attualissimi, della solitudine, dell'incomunicabilità, del crollo del sogno americano; temi che hanno reso il romanzo datato 1925 uno dei pilastri della letteratura mondiale del secolo scorso.
Ma chi conosce il cinema di Luhrmann sa che un qualsiasi suo adattamento, Romeo + Giulietta docet, non potrà che riservare sorprese e shock agli spettatori meno smaliziati: la prima mezz'ora in particolare, spesso anche ricordando non poco quel Moulin Rouge di dodici anni or sono, ha quello slancio visionario e tutte le bizzarrie anacronistiche e kitsch a cui ci ha spesso abituato il cineasta australiano, movimenti di macchina sontuosi ed insistiti, commistioni di musiche contemporanee e d'epoca (Jay-z incontra Gershwin ma anche Bryan Ferry), complesse e lussureggianti sequenze di feste e danza in stile videoclip.
A differenza però del film musicale con protagonista la Kidman, questo lungo razzle dazzle introduttivo non ottiene lo stesso stupefacente ed esilarante effetto, non riesce realmente - nonostante l'indubbio sfarzo e l'incredibile lavoro di scenografi e costumisti - ad introdurci nelle atmosfere dell'epoca ma piuttosto crea un quasi oltraggioso contrasto con il voice over fitzgeraldiano e con il tono malinconico che la pellicola comincia ad assumere soltanto con l'arrivo del vero protagonista del film, quel misterioso Gatsby che fa la sua comparsa solo alla mezz'ora.
Splendido, carismatico, elegante e dal sorriso magnetico, il Gatsby interpretato da Leonardo DiCaprio ha tutte queste caratteristiche che lo rendono un divo tra i divi, una stella che riesce a brillare anche nel mezzo di una festa affollatissima e scintillante. Ma grazie alla bravura dell'attore, il suo Gatsby ha anche la capacità di trasmettere quel senso di profondissima solitudine e insicurezza unita ad una speranza cieca, quella che lo condurrà all'inevitabile tragico epilogo.
Luhrmann è ben consapevole di avere la scelta ideale per questo ruolo, un protagonista ed un interprete assolutamente perfetto che non necessita di alcun abbellimento o effetto speciale, ed è quindi con DiCaprio in scena che pian piano il regista si mette finalmente da parte e lascia che siano i personaggi ad emergere, a far trasparire le emozioni di una storia tanto semplice quanto perfetta nei suoi risvolti e nei suoi temi. Paradossalmente quindi è proprio quando il film funziona meglio, in tutta la sua parte finale, che risaltano ancor di più i difetti del resto della pellicola: l'insistenza su certe inquadrature e simbolismi che finisce per privarli di significato, l'esasperazione dell'elemento musicale e spettacolare, l'assurda ricerca di una leggerezza e di un'ironia spesso fuori posto.
In alcuni momenti Luhrmann sembra proprio Gatsby, con la sua necessità di volerci sorprendere e conquistare ad ogni costo, di voler rivivere il successo passato ed è per questo forse che il siparietto con i fiori a casa Carraway in cui è il suo stesso protagonista a chiedere "E' forse troppo?" risulta imbarazzante tanto per il buon Nick che per lo spettatore, che vorrebbe quasi rispondere affermativamente.
E a chi scrive rimane il rimpianto di non aver visto lo stesso progetto, lo stesso brillante cast, gli stessi mezzi nelle mani di un regista più affine allo spirito di Gatsby, un regista - ci permetteremmo di suggerire il nome di Martin Scorsese - che avrebbe potuto esaltare un'opera che resta in attesa di un'incarnazione cinematografica alla propria altezza.
Movieplayer.it
3.0/5