Torna a Venezia, Francesco Munzi, il palcoscenico che lo ha visto debuttare con il suo primo lungometraggio, Saimir, presentato nella sezione Orizzonti; a dieci anni di distanza da quello che è stato un buon trampolino di lancio (due candidature ai David di Donatello e una nomination allo European Film Awards come miglior rivelazione) per il cineasta capitolino è arrivato il momento di mettersi alla prova nel concorso con un'opera, Anime nere, che ne conferma pregi e originalità.
Liberamente ispirato all'omonimo romanzo di Gioacchino Criaco, il film racconta la storia di tre fratelli calabresi che a loro modo si confrontano con la criminalità locale. Il primo, Luigi (Marco Leonardi), è un narcotrafficante internazionale, il secondo, Rocco (Peppino Mazzotta), vive a Milano con la moglie e apparentemente sembra il più distante dal modus operandi dei familiari, sebbene viva dei soldi guadagnati dagli affari illeciti di Luigi. Infine, Luciano (Fabrizio Ferracane), rimasto in Aspromonte, si culla nell'idea di potersi sostenere lavorando la terra. Sarà un'azione scellerata del figlio Leo a far convergere tutti in un punto di non ritorno.
Ritratto in nero
Dimostra una certa maturazione artistica in questo film, Munzi, che riesce a padroneggiare con ordine ed efficacia un materiale narrativo denso e pieno di sfumature. Lo fa sacrificando alla buona tenuta corale della storia, un approfondimento più sostanzioso dei singoli personaggi, ma senza scalfire la resa finale del racconto che ci appare coerente e incisiva. Non sappiamo quali siano davvero le idee dei protagonisti, le motivazioni profonde che li spingono ad agire in una determinata maniera. Sappiamo però cosa fanno e ciò che fanno è il prodotto dell'ambiente che li ha generati, che reputa buoni cristiani coloro che sanno meglio aderire alla mentalità criminale (agire e non tradire), che concepisce i legami di sangue come qualcosa di indissolubile e considera la vendetta come unica ragione di vita.
La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile
La frase di Corrado Alvaro, calabrese, una delle voci più autorevoli della nostra narrativa contemporanea, racchiude lo spirito e il senso di un film che si sviluppa attorno al tema della libertà personale, della capacità di compiere scelte in assoluta autonomia, affrancandosi da un passato, una storia familiare, apprentemente ineluttabile e immutabile; anche perché nel momento stesso in cui si prova a tracciare un'altra strada, il prezzo da pagare è molto alto. Le parole dello scrittore sono un controcanto alle azioni di Luigi, Rocco e Luciano. E' come se il concetto stesso di legalità, o onestà per dirla con Alvaro, non venisse mai preso in considerazione, rimanendo sullo sfondo, definendo il mondo dei protagonisti per contraddizione. Non c'è altra via, insomma, se non quella tracciata dai padri. In un mondo arcaico, che ripete certi riti con costanza spaventosa, la libertà è dunque un concetto impossibile.
Finché morte non ci separi
Tenuto conto di questo pessimismo di fondo, che può risultare a volte fastidioso, soprattutto se la sua "rivelazione" non viene accompagnata dall'analisi altrettanto pulita del contesto sociale in cui nasce, l'aspetto vincente del film è il suo ritmo lento. Non vi sembri un controsenso, perché la calma apparente che accompagna l'evolversi della narrazione, in realtà ne accresce i suoi aspetti più tragici, portandoci a toccare con mano una realtà in cui la violenza è legge. Nulla avviene in maniera eclatante, ma si muove verso un epilogo doloroso che, per contrasto con la sua implacabile preparazione, esplode in maniera ancora più potente. E' un'opera che all'epica criminale preferisce una storia meno urlata e che risulta avvincente anche grazie alla scelta di far parlare i personaggi in dialetto, "scollandoli" dal "resto" d'Italia ("Garibaldi qui non è arrivato", dice uno dei protagonisti). Davvero bravi, per la naturalezza mostrata nella recitazione in "lingua", Marco Leonardi, Peppino Mazzotta e Fabrizio Ferracane, che danno corpo alle inquietudini dei loro alter-ego con un'interpretazione misurata. Munzi, che alla sceneggiatura ha lavorato con Fabrizio Ruggirello e Maurizio Braucci (nel pool di sceneggiatori di Gomorra di Matteo Garrone), e la collaborazione dello stesso Criaco, ha curato in egual misura l'aspetto visivo del'opera, grazie all'uso efficace di una fotografia dai toni lividi, una luce fredda che in qualche modo amplifica l'oscurità che pervade i personaggi. Anche i movimenti di macchina non sono mai finalizzati alla bellezza, al contrario, in maniera diretta e essenziale delineano spazi angusti e brutti, magnificando invece i paesaggi di una terra brulla e selvaggia.
Conclusione
Anime nere di Francesco Munzi è un film spoglio, essenziale, per nulla narcisistico. Il regista capitolino descrive con mano ferma il mondo di una famiglia criminale calabrese, destinata ad auto estinguersi in nome di una vendetta letale e padroneggia con espressività un materiale narrativo corposo e ricco di nuances. Anche se l'approfondimento dei singoli personaggi risulta in qualche punto sacrificato, il racconto di Munzi tiene e la resa ci appare coerente e incisiva.
Movieplayer.it
3.5/5