Ciao, mi chiamo Marcello e sono depresso. E' una frase spiazzante, una presa di coscienza che può rappresentare il crollo di una vita o il punto di partenza per una faticosa risalita. Tutti hanno diritto di stare male, di curarsi e guarire. Il punto è che se a pronunciare una sentenza del genere è uno psicanalista, uno che a sua volta dovrebbe curare e guarire gli altri, allora il problema è più sostanzioso. Così quando il malessere interno si tramuta in una malattia fisica senza speranza di guarigione, che finirà per renderlo cieco, Marcello decide di lasciare la professione e i pazienti che riceveva settimanalmente nel suo studio. Un trauma che quel gruppo di sbalestrati vive come un abbandono bello e buono.
Nazareno è uno spacciatore di periferia con gli attacchi di ansia, che ha messo incinta la bella cubana Mercedes e non sa come comportarsi. Pasquale è un conducente di bus disperatamente mammone, quindi incapace di relazionarsi con le donne. Vitaliana non riesce a trattenere la sua carica erotica, indirizzata prevalentemente "contro" Marcello, mentre Betta ed Enrico sono in crisi matrimoniale stabile, causa dipendenza (del marito) dai social network. Potranno mai farcela da soli, senza il loro dottore?
Silvia, segretaria del medico, è convinta che loro abbiano ancora bisogno di Marcello, ma soprattutto sa che sia lui a volerli vicino per tornare a vivere. Li riunisce così per un progetto di sostegno, coadiuvato dalla presenza sostanziale di un altro psicoterapeuta, che prende in cura lo stesso Marcello e i suoi pazienti. La malattia fisica intanto continua ad aggravarsi e l'unica soluzione è un'intervento chirurgico molto rischioso da fare in Germania.
Dal lettino al set
Sono tanti, tantissimi anzi, gli elementi che rendono ambizioso il terzo lungometraggio diretto da Massimiliano Bruno, Confusi e felici, un'opera corale che sotto la veste di commedia cela delle ponderose riflessioni sulla malattia, in particolare quella psichica, cura e guarigione. Se in Ma che colpa abbiamo noi? di Carlo Verdone la vegliarda dottoressa moriva nel mezzo di una seduta di gruppo, lasciando i poveri pazienti senza la guida illuminante che cercavano con disperazione, qui lo psicanalista, Claudio Bisio, è vivo e vegeto ma soffre di una particolare doppia patologia, una depressione che gli impedisce di vedere la realtà umana dei pazienti (e di conseguenza curarli) e una cecità fisica, forse irreversibile. L'elemento narrativamente interessante del lungometraggio di Bruno è rappresentato quindi dalla malattia dell'analista, un "disturbo" che si realizza in un'assenza di visione, sia a livello fisico che affettivo. E il confronto dello psicologo con il proprio disagio innesca una serie di riflessioni interessanti sull'argomento.
A dangerous method
Già in occasione dell'ultimo lavoro di Paolo Genovese, Tutta colpa di Freud, abbiamo sottolineato quanto sia stato forte negli anni il rapporto tra cinema e rappresentazione della psicoanalisi, o meglio tra film e raffigurazione del legame tra paziente e medico. C'è una curiosità (evidentemente ancora non soddisfatta) che riguarda i segreti celati nella stanza del dottore (un dottore della psiche in questo caso) che spinge i registi a interrogarsi sulle dinamiche che legano due "personaggi" così peculiari; anche le serie televisive hanno provato a squarciare il velo di riservatezza che avvolge le sedute di psicoterapia e un prodotto come In Treatment ha contribuito ad accendere i riflettori in particolare sullo psicoanalista, figura umana e professionale piena di dubbi, distante e poco partecipe, in balia dei flutti del destino, forse alla ricerca di una cura per sé stesso.
Chi cura il medico?
Non sono proprio i pazienti, dunque, a riportare in vita Marcello, anche se sono importanti, ma l'arrivo di un terapeuta dall'impostazione antitetica a quella dello psicanalista in crisi, un professionista che vede nella malattia qualcosa che può essere affrontato con successo. Un'antinomia del genere, cinematograficamente originalissima, tra il vetero analista arroccato sulle proprie convinzioni e una nuova figura, meno paterna e più sana, avrebbe potuto sostenere tutto il film; peccato che il personaggio interpretato da Gioele Dix abbia uno spazio risicato e sia stato solo tratteggiato, quando la contrapposizione con Bisio avrebbe potuto essere accentuata.
Nessuno li può giudicare
Rispetto alle due precedenti regie, Nessuno mi può giudicare e Viva l'Italia, molto apprezzate dal pubblico per la loro verve genuina, ma non perfettamente compiute, Bruno dimostra un miglioramento sensibile, soprattutto nel tentativo di dare una profondità maggiore ai temi trattati; se negli altri film la scrittura appariva quanto mai "automatica", indirizzata a dimostrare una tesi, qui c'è un lavoro di scavo più preciso, supportato dalla sensazione che ogni battuta, ogni sequenza sia stata filtrata attraverso un'esperienza personale molto forte. Per questo in certi punti il tono può sembrare un po' troppo perentorio, ma visto che i film sono fatti per raccontare delle storie, quella scelta da Bruno merita di essere narrata.
Confusi e felici, purtroppo, soffre degli stessi problemi di un certo cinema di genere italiano, più attento al risultato finale che non al percorso necessario per arrivarci. Gli snodi narrativi non sono tutti perfettamente raccordati e alcune situazioni sembrano ripetersi a oltranza, come certi personaggi. Un carattere come quello interpretato da un incontenibile Marco Giallini, ad esempio, rischia di debordare e, al contrario, di risultare poco credibile nel momento in cui mette la testa a posto. La coppia in crisi di Caterina Guzzanti e Pietro Sermonti, la maniacale Paola Minaccioni o il livoroso giornalista sportivo Rocco Papaleo, poco aggiungono alla categoria di casi psichiatrici, più o meno gravi, visti al cinema. Bella invece la figura femminile incarnata dalla bravissima Anna Foglietta.
Tanto confusi e tanto felici
Conclusione
Confusi e felici è un film godibile che, con tutti i difetti di certa produzione italiana, ha almeno il pregio di raccontare una storia ricca di implicazioni, con un taglio originale, proponendo un ottimismo di fondo che in una commedia di questo genere ha un valore inestimabile. Se la malattia fisica, a quanto pare inevitabile, dà filo da torcere al protagonista, dalla sua cecità affettiva, forse ancora più grave, riesce a guarire attraverso una cura d'urto e il recupero di un'umanità perduta. In tutta sincerità, è un discorso che apprezziamo.
Movieplayer.it
3.0/5