Recensione Berberian Sound Studio (2012)

Berberian Sound Studio ha il gran merito di mostrare nei dettagli un ambito tecnico relativamente poco conosciuto dal pubblico: la post-produzione audio.

Il rumore della paura

Da buon musicista, Peter Strickland non si accontenta di realizzare un semplice lungometraggio, ma compone una sinfonia visivo-sonora di orrori e visioni. Il membro dei Sonic Catering Band esplora i due universi che conosce meglio, il cinema e la musica, dando vita a un doppio omaggio che sarà apprezzato in particolar modo dai cultori dei B movie horror anni '70. L'anno in cui è ambientato Berberian Sound Studio è, per l'appunto, il 1976 e la location del titolo è uno scalcinato studio italiano di post-produzione in cui vengono doppiati i peggiori horror, pieni di sesso ed effettacci speciali. Peter Strickland non teme il giudizio del pubblico. La sua è un'opera di nicchia, di difficile collocazione e di ancor più difficile catalogazione. Non è un horror nel vero senso del termine, anche se ne mutua il look, l'atmosfera, i colori e i personaggi. E' un film sul cinema che parte in maniera concreta e realistica per poi deviare verso la dimensione onirica, rimescolando le carte e giocando con lo spettatore che, da un certo punto in poi, è destinato a non comprendere più ciò che sta vedendo sul grande schermo.

Fin dalle prime inquadrature e dai suggestivi titoli color sangue del film nel film, l'horror fittizio 'Il vortice equestre', i colori innaturali, l'ambientazione claustrofobica, i volti e le pettinature dei personaggi (soprattutto quelli femminili) richiamano alla mente le pellicole di Fulci, Bava, Lenzi, Margheriti e del primo Dario Argento. Peter Strickland ricostruisce un mondo nei minimi dettagli mimandone natura e caratteristiche e servendosi dello stesso linguaggio sporco dei film a cui si richiama. In questo universo fatto di registi cialtroni, produttori despoti e attricette pronte a tutto pur di sfondare viene calato un personaggio estreaneo: il timido Gilderoy, stimato tecnico del suono inglese chiamato a supervisionare il missaggio audio dell'horror di Santini (Antonio Mancino). A interpretare Gilderoy troviamo l'eclettico Toby Jones il cui personaggio, nel raffazzonato ambiente cinematografico italiano, si muove come un pesce fuori d'acqua. La mancanza di professionalità dei tecnici, della produzione che latita nei pagamenti, dell'amministrazione e del cast si scontra con la dedizione totale del piccolo tecnico inglese, il quale sfoga ogni pulsione nella sperimentazione di nuovi effetti di sonorizzazione o nelle sporadiche lettere alla madre lontana.
Berberian Sound Studio ha il gran merito di mostrare nei dettagli un ambito tecnico relativamente poco conosciuto dal pubblico: la post-produzione audio. Il film svela i trucchi adottati in un universo artigianale povero di mezzi (oggi si direbbe low budget) per creare gli effetti sonori. In un profluvio di registrazioni di brodo che bolle, cavoli e cocomeri tagliuzzati con violenza, urla simulate e voci distorte viene rivelato un universo per iniziati. Scelta curiosa che conferisce al film una sua originalità distinguendolo dalla massa di horror ambientati su un set. A lungo andare, però, il regista si fa prendere la mano. Se la figura di Gilderoy muta divenendo più ambigua di scena in scena, altrettanto confuse risultano le frequenti soprapposizioni tra realtà e incubo. L'ultima mezz'ora di Berberian Sound Studio cambia passo aprendo a suggestioni pesudolynchiane che però gli fanno perdere di vista quella concretezza tipica dell'universo di riferimento: l'horror all'italiana. La pellicola risulta ambiziosa, ma i suoi intenti non sono troppo chiari e questa confusione rischia di lasciare lo spettatore con più dubbi che altro.

Movieplayer.it

3.0/5