Superata ormai la soglia degli ottanta, Clint Eastwood non smette di proporre progetti destinati a far discutere. La parentesi "leggera" (ma non troppo) di Jersey Boys l'avevamo certo apprezzata, ma un progetto come quello di American Sniper sembra pensato apposta per Clint: un biopic, genere già frequentato dal cineasta americano, dedicato a uno dei più recenti emblemi della triade "Dio-patria-famiglia" che la storia americana abbia conosciuto. Oltre a ciò, una riflessione su una vicenda collettiva recente (e tutt'altro che conclusa) come quella della guerra in Iraq; vista dall'ottica di chi quella guerra l'ha combattuta, abbracciandone in toto le motivazioni.
Facciamo, preliminarmente, qualche cenno all'oggetto del film: Chris Kyle, soldato statunitense protagonista di varie missioni in Iraq, cecchino infallibile nei SEALs con circa 160 uccisioni all'attivo. Il film narra la giovinezza di Kyle e la decisione di arruolarsi, il duro addestramento e il suo emergere come tiratore scelto, l'incontro con quella che poi diventerà sua moglie e la difficile conciliazione tra l'impegno come militare (parallelo all'aura mitica che il suo personaggio inizia a rivestire, specie tra i commilitoni) e il suo status di marito e poi di padre. Insieme a ciò, Eastwood mostra l'incapacità del protagonista di distaccarsi dal campo di battaglia, anche durante i ritorni a casa, l'ossessione della caccia a un cecchino nemico, responsabile della morte di alcuni suoi compagni, l'incrinarsi del suo matrimonio. Fino alla paradossale conclusione della sua vita, per mano di un ex commilitone congedato, sofferente di disturbo post-traumatico da stress.
Stereotipi e corpi in azione
Guardando American Sniper, viene confermata l'impressione che questo sia un lavoro destinato a far parlare di sé a lungo, a prescindere dal suo valore cinematografico. Eastwood, d'altronde, è stato ormai pienamente (e da tempo) sdoganato dalla critica più di sinistra; ma il retropensiero sul suo cinema (e su un universo di riferimento che, d'altra parte, lo stesso regista non ha mai negato) è duro a morire. Basta anzi poco, la scelta un soggetto come questo, e la rivelazione dell'ottica da cui viene trattato, a far risorgere sospetti e avversioni mai sopite: prepariamoci, quindi, a sentir parlare di film fascista, guerrafondaio, pro-Bush e via dicendo. Tutte semplificazioni, ovviamente, frutto come sempre di letture preconcette e poco attente alla realtà del testo: se è vero, infatti, che il punto di vista (dichiarato) è quello di un soldato americano dal solido retroterra conservatore, incapace di concepire una visione dei rapporti internazionali (ma anche, più in generale, di quelli umani) che prescinda da un "noi" ed un "loro", è anche vero che tale visione viene innestata su una realtà problematica, esplicita soprattutto nella scissione a cui il protagonista interpretato da Bradley Cooper viene condannato. Sta proprio nella prova di Cooper, volto e corpo capace da solo di generare empatia, uno dei punti di forza principali del film: la sua trasformazione fisica, il crescere esponenziale della stazza nella prima parte del film, si accompagna al parallelo indurimento nei lineamenti, alla mimica da guerriero che progressivamente prende possesso delle sue fattezze. Una mimica che rivela, col procedere della storia, qualcosa di sempre più simile a un tratto di personalità ossessivo, all'incapacità di discernere tra il palcoscenico di tutti i giorni e quello convulso della battaglia.
La scrittura e le immagini
Se l'interpretazione di Cooper, frutto di un'attenta preparazione fisica e psicologica del personaggio, si rivela dunque all'altezza delle aspettative, e la regia, ancora una volta, non è niente meno che magistrale, American Sniper denuncia però i limiti di una sceneggiatura meno brillante che in passato. Lo script di Jason Hall (al suo attivo il thriller Il potere dei soldi) è incerto nel gestire una vicenda personale e umana che si dipana attraverso oltre dieci anni di storia (e circa due ore e un quarto di film): la sua narrazione, infatti, a tratti accelera indebitamente, a tratti rallenta dilungandosi in eventi poco rilevanti, non riuscendo a dare compattezza e armonia alla storia di un uomo sempre più scisso. Poco comprensibile, in particolare, la scelta di eliminare del tutto, a un certo punto del film, un personaggio che sembrava avere una sua rilevanza come quello del fratello del protagonista: presenza fondamentale in tutta la descrizione del background (dall'infanzia ai giorni immediatamente precedenti all'arruolamento), poi recuperata frettolosamente durante la fase dell'"ascesa" della popolarità di Kyle, e infine abbandonata dopo un momento conflittuale. Una scelta che, drammaturgicamente, appare poco giustificata e limitante.
Convince poco, inoltre, la descrizione un po' troppo schematica del rapporto con una Sienna Miller meno efficace della sua controparte: il dramma dell'incapacità dell'adattamento alla vita familiare, della guerra come droga e dipendenza, è tutto sul volto di Cooper. Poco, nei dialoghi, a volte ai limiti del manicheismo, tra i due coniugi, e nella poco convincente descrizione del deteriorarsi del loro rapporto, riesce a imporsi davvero alla memoria.
Sia chiaro, e non ci si interpreti male: l'intreccio di American Sniper coinvolge comunque molto, a tratti trascina; ma, a mente fredda, ci si rende conto che sono la maestria del regista, e la prova del protagonista, a provocare questo risultato, più che una sceneggiatura che non sempre sfrutta al meglio (a volte banalizzandole) le potenzialità del soggetto.
La guerra messa in scena
Ciò che invece convince in pieno, del film di Eastwood, è la caratura e l'impatto della messa in scena. Non è una novità, certo, che il regista americano conosca il cinema, e sappia sfruttare le sue potenzialità, come pochi suoi colleghi: ma vale lo stesso la pena ricordare l'eccezionale rigore e impatto della sua regia, specie considerato il fatto che ci troviamo di fronte a un ottantenne, che dimostra nel suo lavoro il vigore di un trentenne. Le sequenze ambientate in Iraq sono quanto di più visivamente realistico, e fisicamente coinvolgente, si sia visto negli ultimi anni nel cinema bellico: il primo paragone che viene in mente, in un certo senso ovvio, è quello con The Hurt Locker di Kathryn Bigelow. Film certo diverso da quello di Eastwood, ma affine nella ricerca della rappresentazione della vertigine, dell'ebbrezza dello scontro, dell'adrenalina che pervade anima e corpo del soldato quando si arriva al momento concitato della battaglia, che segna il crinale tra vita e morte. Eastwood massimizza l'impatto di questi momenti, facendoli passare attraverso i lineamenti e i muscoli del suo protagonista, chiama lo spettatore all'ingresso fisico nella scena, ne coinvolge il cervello, il cuore e i nervi.
Resteranno impresse, come alcune delle sequenze più coinvolgenti del cinema eastwoodiano, la prima uccisione compiuta dal protagonista, così come la lunga battaglia che segna il suo congedo dal teatro di guerra iracheno. L'impatto della costruzione visiva del regista si somma all'incedere dell'ossessione nel protagonista, al suo progressivo distacco dalla realtà: in un'alchimia che, pur precaria, genera emozione autentica, e permette di soprassedere in larga parte sui limiti narrativi del film.
Conclusioni
American Sniper non è il miglior film di Clint Eastwood, e probabilmente non si pone nemmeno, in un'ipotetica graduatoria, tra le sue migliori prove degli ultimi anni. Restano pretestuose, tuttavia, le polemiche che hanno già iniziato a manifestarsi sul suo impianto ideologico: i difetti del film, pur presenti, vanno ricercati semmai in una scrittura troppo approssimativa. Resta tuttavia, per la capacità del regista di narrare una tragedia che (volenti o nolenti) ci coinvolge tutti, nonché il suo impatto su un suo singolo protagonista, un'opera che merita assolutamente la visione.
Movieplayer.it
3.0/5