Cina Popolare, ai giorni d'oggi. Un caso di parricidio scuote l'opinione pubblica: un giovane benestante, adottato da una famiglia dell'alta borghesia, uccide il suo padre biologico, uomo con problemi di alcolismo. Le prove a carico del ragazzo, appena ventenne, sembrano difficili da confutare; elementi principali dell'accusa, le dichiarazioni di due testimoni, vicini di casa della vittima. La facoltà di giurisprudenza dell'università, in cui si sta studiando il diritto anglo-americano, mette in atto un singolare esperimento: dodici cittadini, di diversa estrazione sociale, si riuniranno in una stanza per discutere del caso, simulando la giuria di un processo americano. Il gruppo potrà cessare di discutere solo quando avrà raggiunto un verdetto all'unanimità, che sia esso di innocenza o colpevolezza.
Ha ormai quasi un sessantennio di vita, l'esordio alla regia di Sidney Lumet, La parola ai giurati: eppure, l'essenzialità e la straordinaria forza drammatica di quel soggetto (dodici persone chiamate a giudicare della vita o della morte di un'altra) continua a generare nuove versioni e adattamenti. Già, tra gli altri, William Friedkin e Nikita Mikhalkov si sono cimentati con la storia originariamente scritta da Reginald Rose, rispettivamente nel film televisivo omonimo, La parola ai giurati, e nel lungometraggio 12: ora, il soggetto approda nella Cina moderna, per l'esordio dietro la macchina da presa del regista teatrale Ang Xu.
Ragioni e limiti di un trans-remake
L'idea di 12 Citizens è quella di riflettere sul moderno sistema giudiziario cinese, mettendolo a confronto, e facendolo collidere, col modello della giustizia americana. Un punto di vista, quindi, speculare a quello del film originale, in cui oggetto d'esame era proprio il processo statunitense e le sue possibili distorsioni; ma in un certo senso anche più limitante, visto che la portata universale del tema (la giustizia umana e la sua fallibilità) viene ridotta qui al confronto tra due diversi "sistemi". Va detto subito che il limite principale del film di Ang Xu è legato a doppio filo alla sua concezione: l'aver voluto mettere in scena, anziché un autentico giudizio, da cui dipenda la vita di un essere umano, una simulazione priva di un esito concreto su quest'ultima. La scelta, per certi versi obbligata, aveva comunque un potenziale notevole, almeno su due diversi fronti: quello, appena accennato, di un confronto e di un esame comparato di modelli giuridici diversi (e per molti versi contrapposti); e quello, ancora più interessante, di una riflessione metalinguistica, incentrata sull'atto stesso di mettere "in scena" un giudizio (e i legami, risalenti addirittura alla tragedia greca, tra teatro e udienze giudiziarie, potevano qui venire in soccorso del regista).
Il problema è che l'esordiente Xu sceglie di non percorrere nessuna delle due strade: limitandosi a replicare pedissequamente (persino negli abiti dei personaggi, nella loro fisionomia, e nelle rispettive posizioni al tavolo della discussione) il modello del film del 1957. Se lo stigma, nell'America di allora, era rivolto verso le classi più povere (di cui il presunto omicida faceva parte) ora sono i ricchi capitalisti ad essere oggetto degli strali del personaggio negativo: ma, dell'equazione, si coglie subito l'enorme limitatezza.
La lunga mano della propaganda
A influire negativamente sulla riuscita di 12 Citizens, però, c'è un ulteriore elemento: un elemento che ne inquina la genuinità, finendo per mettere in discussione le sue stesse ragioni, e porlo (almeno agli occhi dello spettatore più attento) sotto un'ottica diversa. Parliamo della sua evidente, pesante componente propagandistica, che emerge con chiarezza negli ultimi minuti di film. Se il rovesciamento di prospettive a cui si accennava sopra, che pone le classi più agiate nello scomodo ruolo di dover "giustificare" la propria esistenza, trova comunque un fondamento nella realtà della società cinese moderna, la morale interclassista e pacificatoria che ne emerge è palesemente posticcia, piazzata nella pellicola al solo scopo di compiacere le autorità. In coda a un intreccio che segue fedelmente, fin nei minimi particolari, la sceneggiatura del film di Lumet, viene posto un colpo di scena (che non riveliamo) che appare talmente privo di giustificazione narrativa, e mirato a veicolare un'ottica "buonista", da lasciare ben pochi dubbi sulla sua reale funzione. In linea con esso, l'ultima sequenza, quella fuori dall'aula, che (lungi dall'avere lo scopo, proprio della sua equivalente del 1957, di alleviare la claustrofobia dell'ambientazione) si rivela altrettanto fuori tono col resto del film; finendo per neutralizzarne anche quelle componenti che, mutuate dalla pellicola originale, mantenevano comunque una loro efficacia. E dire che, poco prima, il pianto del personaggio che fu di Lee J. Cobb si era rivelato convincente e toccante, riuscendo per una volta a superare (pur senza cancellarlo del tutto) l'inevitabile déjà vu che attanaglia tutto il film. Ma l'infelice chiusura, sfortunatamente, finisce per restare impressa, a fine visione, in misura maggiore.
Conclusioni
12 Citizens sceglie da un lato la via più facile nell'approccio a un classico (quella del trans-remake pedissequo), zavorrandosi dall'altro di una componente di propaganda che, pur comune a molte opere contemporanee della Cina mainland, si digerisce con difficoltà. Un soggetto come questo, trasportato in un contesto dalle indubbie potenzialità, meritava senz'altro un trattamento diverso.
Movieplayer.it
2.0/5