La scorsa notte ho sognato di essere tornata a Manderley...
La scena d'apertura di Rebecca, la prima moglie, quella ripresa in soggettiva che si rivela una visione onirica, riproduce quasi alla lettera l'incipit dell'omonimo romanzo di Daphne du Maurier; e nel film, il connubio fra sogno e memoria viene espresso magistralmente dall'incedere della macchina da presa lungo quel viale in cui "la natura aveva ripreso quel che le apparteneva" e dall'imponente sagoma nera di Manderley, con "la perfetta simmetria delle sue mura". Ma la prolessi di quel formidabile prologo serve anche a conferire un'aura di ineluttabile fatalità al racconto sviluppato da lì in poi, in una pellicola che segna una cesura fondamentale all'interno della vastissima produzione di Alfred Hitchcock.
L'esordio americano di Alfred Hitchcock
Nel 1939 un Alfred Hitchcock alla soglia dei quarant'anni, sull'onda del successo de La signora scompare, viene messo sotto contratto da uno dei più importanti produttori di Hollywood, David O. Selznick, reduce dall'impresa titanica di Via col vento. Il primo progetto affidato al regista britannico è una trasposizione del libro Rebecca, pubblicato da Daphne du Maurier un anno prima; Hitchcock, dal canto suo, aveva appena realizzato un altro adattamento di un libro della scrittrice inglese, La taverna della Giamaica, distribuito nelle sale con ottimi incassi fra l'estate e l'autunno del 1939. Per Rebecca, la prima moglie, Hitchcock ha a disposizione un solido apparato produttivo, un protagonista già affermato quale Laurence Olivier e una giovane star in ascesa, Joan Fontaine.
Sottoposto al rigido controllo di Selznick in fase di post-produzione, Rebecca, la prima moglie viene presentato in anteprima a New York il 28 marzo 1940 e debutta nelle sale statunitensi il 12 aprile, registrando un eccellente responso da parte del pubblico. Un anno dopo, Rebecca sarà la pellicola più candidata alla tredicesima edizione degli Academy Award, con undici nomination, e conquisterà l'Oscar come miglior film, insieme a una seconda statuetta per la fotografia di George Barnes. Fra i dieci titoli nominati per il premio principale, fra l'altro, figura anche la seconda produzione americana di Hitchcock, il thriller spionistico Il prigioniero di Amsterdam (sei nomination in tutto), a suggellare l'immediata consacrazione del "maestro del brivido" fra i registi di punta di stanza a Hollywood.
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La signora de Winter e il fantasma di Rebecca
Eppure, a dispetto del successo e dei riconoscimenti, Hitchcock stesso non nasconderà le proprie perplessità su Rebecca: nel loro libro-intervista, dichiara a François Truffaut che "Rebecca è una storia che manca di umorismo" e che non lo sente come un film totalmente suo. Tale 'discrepanza' risiede probabilmente, come evidenziato pure da Truffaut, nella natura della fonte letteraria: "All'inizio Rebecca era una storia lontana da lei, non era un thriller, non c'era suspense, era una storia psicologica". Eppure Rebecca rimane un film intimamente hitchcockiano, per quanto con una declinazione peculiare rispetto ai suoi futuri classici: perché qui Alfred Hitchcock rilegge il dramma psicologico della du Maurier, narrato interamente dalla prospettiva della seconda signora de Winter, adoperando i codici del thriller gotico - a partire dalle atmosfere tipiche del filone - e della ghost story.
Ecco, il Rebecca hitchcockiano è essenzialmente questo: una ghost story in cui il fantasma, il personaggio del titolo, è una donna defunta che la protagonista non ha mai conosciuto, ma con la quale dovrà confrontarsi, giorno dopo giorno, in un duello sempre più doloroso e sfibrante. Una figura che, saggiamente, Hitchcock non trasporta mai sulla scena, neppure ricorrendo a flashback, sublimandola così in una creatura fantasmatica che prende forma unicamente nell'immaginazione della nuova signora de Winter. Al contrario quest'ultima, così come pure nel romanzo, non ha un nome: a definirla è unicamente la sua nuova condizione di donna sposata, e tale vuoto identitario sembra renderla ancora più esposta alla misteriosa minaccia dell'ombra di Rebecca.
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"Non siamo felici? Terribilmente felici?"
La ventunenne Joan Fontaine, sorella minore di Olivia de Havilland, è un'interprete perfetta per il ruolo, con la sua innocenza che si trasforma in ansia nevrotica e quel divorante complesso di inadeguatezza in grado di condurla verso la follia. Per oltre metà del film, tutto il conflitto drammatico si svolge nella mente della protagonista: e del resto cos'è Rebecca, se non un archetipo di quei paranoia-thriller che dal noir classico (Angoscia di George Cukor, Dietro la porta chiusa di Fritz Lang) saranno traghettati fino al cinema contemporaneo, con L'amore bugiardo di David Fincher quale massimo punto d'approdo? Appena l'anno seguente, Joan Fontaine presterà il volto a una nuova "moglie in pericolo" in un altro film di Hitchcock, Il sospetto, che le varrà l'Oscar come miglior attrice, in parte come compenso per la statuetta sfiorata con Rebecca.
Di fronte all'aplomb e alla raffinata compostezza del Maxim de Winter di Laurence Olivier, le insicurezze della giovane moglie paiono ingigantirsi, trasfigurando gli ampi saloni di Manderley nel teatro di una progressiva perdita del sé mentre la ragazza sprofonda verso l'abisso. "Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi", avrebbe scritto molti decenni più tardi David Foster Wallace; Rebecca, la prima moglie è una storia d'amore in cui il 'fantasma' rappresenta una dipendenza tossica dal passato, ma anche la proiezione di un modello idealizzato e pertanto irraggiungibile, con il quale si scontra la drammatica coscienza della propria inferiorità: sociale (un aspetto a cui si fa riferimento sia nel romanzo che nel film), ma soprattutto psicologica, correlata alla paura della precarietà dei sentimenti.
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Il volto dell'incubo: la signora Danvers
Se Rebecca è una presenza-assenza intangibile, in compenso le inquietudini di Mrs. de Winter trovano una personificazione emblematica in una delle figure più memorabilmente sinistre di tutto il cinema hitchcockiano: la signora Danvers, l'ambigua governante dai tratti aguzzi e dallo sguardo allucinato, interpretata dalla diva del palcoscenico Judith Anderson (qui alla sua seconda apparizione sul grande schermo). Daphne du Maurier la introduce all'interno del romanzo con una descrizione dai contorni quasi metafisici: "Una figura si staccò dal mare di facce, una figura alta e ossuta, vestita di nero, d'un nero d'inchiostro, cui gli zigomi salienti e i grandi occhi infossati davano l'aspetto lugubre d'un teschio, un teschio color della pergamena, piantato su di uno scheletro".
Quella "figura alta e ossuta", materializzazione delle angosce della padrona, è un incubo che prende forma, volto e voce: la signora de Winter se la ritrova accanto ogni qual volta le proprie certezze si incrinano e vengono meno, e per aumentare la tensione a Hitchcock basta inserire le due donne nella stessa inquadratura. Il ringiovanimento del personaggio, più anziano nel libro, innesta inoltre un sottotesto omoerotico nell'adorazione di Mrs. Danvers per Rebecca: un'adorazione morbosa e necrofila, a cui la Anderson allude già solo con uno sguardo in cui si mescolano ghiaccio e fiamme. Uno sguardo che, in una scena carica di suspense, spingerà quello della protagonista a contemplare il baratro ("Guardate laggiù: sarebbe tanto facile..."); giusto un attimo prima che il passato riemerga - letteralmente! - per regolare i conti, con uno spiazzante coup de théâtre ideato dalla du Maurier, ma servito a meraviglia da un regista che aveva appena iniziato a dar prova di un talento sconfinato.
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