10 luglio 2021: gli avventori della Quinzaine des Réalisateurs, sezione parallela e indipendente del Festival di Cannes, assistono alla prima mondiale di Re Granchio, esordio nella finzione di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, duo che aveva già collaborato a un lungometraggio documentario nel 2015, nelle sale dal 2 dicembre con Luce Cinecittà. Un'opera sorprendente e incantevole, che sulla Croisette inaugura un percorso festivaliero di tutto rispetto, andando successivamente a Karlovy Vary, New York, Vienna e Tessalonica, prima di approdare in Italia tramite il Torino Film Festival nei giorni precedenti l'uscita nelle sale. Un esordio fulminante, nato dalla collaborazione produttiva fra Italia, Argentina e Francia e girato in parte da noi (per l'esattezza a Vejano, nella provincia di Viterbo) e in parte a Ushuaia, città principale dell'Isola Grande della Terra del Fuoco, nell'emisfero australe. Un viaggio cinematografico che rientra fra le vette della produzione italica recente e rivoluziona il modo di concepire un certo "piccolo" cinema nostrano.
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Piccoli corpi, grandi ambizioni
Forse non a caso, nello stesso periodo - anzi, lo stesso giorno - a Cannes debuttavano sia Re Granchio che Piccolo corpo, quest'ultimo nel filone competitivo della Semaine de la Critique, sezione dedicata alle opere prime e seconde. In entrambi i casi, per il duo composto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis e per Laura Samani, si tratta di opere "piccole", tendenzialmente incentrate su un numero ridotto di personaggi, con un'estetica accostabile alla nozione canonica del cinema d'autore e "da festival" (nel caso di Samani, dopo l'esordio cannense ci sono state vetrine prestigiose come Toronto, Londra e Busan). E all'interno di entrambi c'è l'elemento del viaggio intriso di fantastico, tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento: da un lato Luciano, l'ubriacone che è fuggito dall'Italia e spera di redimersi partendo alla ricerca di un mitico tesoro in territorio sudamericano; dall'altro Agata, mossa dalla disperazione del voler salvare l'anima della figlia, destinata al Limbo in base ai precetti cristiani.
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Lo chiamavano Re Granchio
Sei anni fa si parlava di una nuova carica vitale per il cinema di genere in Italia, con l'apparizione di un altro esordio, Lo chiamavano Jeeg Robot, che ragionava spudoratamente più in grande, rifacendosi a modo suo agli stilemi dell'anime e dei film di supereroi (quest'ultimo un fattore rielaborato anche nel film successivo di Gabriele Mainetti, l'ambizioso Freaks Out, presentato a Venezia qualche mese fa). Se lì il riferimento principale nel titolo era il Trinità interpretato da Terence Hill, per la vicenda di Luciano viene da pensare al Re Pescatore di Terry Gilliam, anch'essa una storia di redenzione ma dove la componente fantastica è più suggerita che esplicitata (per espresso volere del cineasta, che voleva fare qualcosa di più contenuto senza troppi effetti speciali). Lì il viaggio era spirituale, mentre qui è fisico, nella tradizione dei racconti d'avventura, andando da un continente all'altro in cerca d'oro e gloria, con la cornice narrativa dei giorni nostri dove si evocano le peripezie di Luciano come se egli stesso fosse diventato una leggenda, tramandata di generazione in generazione. Una leggenda che fa di necessità virtù, mescolando intuizioni di genere con stilemi più autoriali e generando un ibrido che regna sovrano nel panorama italico contemporaneo, da tramandare alle nuove generazioni di registi.