Non c'è alcun motivo per cui tu debba cercare di diventare uguale ai bianchi, come non c'è nessuna giustificazione plausibile alla pretesa sfacciata che sono loro ad accettarti. Il fatto veramente mostruoso, mio carissimo, è che invece sei tu che devi accettare loro. (James Baldwin, La prossima volta il fuoco)
Alla cerimonia degli Oscar del 1990 Kim Basinger, chiamata sul palco per introdurre uno dei cinque candidati come miglior film, si concede un significativo "fuori programma", rilevando come dalla cinquina dei nominati sia assente un film "che meriterebbe di esserci perché, ironicamente, afferma la verità più grande di tutte". Il titolo a cui si riferisce è Fa' la cosa giusta di Spike Lee, affresco della questione razziale e delle tensioni che esplodono in un quartiere di Brooklyn; presentato trionfalmente al Festival di Cannes, Fa' la cosa giusta è uno degli eventi cinematografici del 1989, ma agli Oscar deve accontentarsi di due nomination. Quell'anno, per ironia della sorte, il premio come miglior film viene attribuito a un'altra pellicola incentrata sui rapporti fra bianchi e neri, ma dotata di un approccio decisamente più 'morbido' e rassicurante: A spasso con Daisy.
Fa' la cosa giusta, il primo, vero cult nella carriera di Spike Lee, e A spasso con Daisy di Bruce Beresford, un prodotto assai più vicino alla sensibilità dell'Academy e del grande pubblico, identificano del resto le due tendenze prevalenti nelle modalità di rappresentazione dei neri e della questione razziale all'interno del cinema americano. Da un lato, il punto di vista interno di esponenti della comunità afroamericana impegnati a raccontare la propria esperienza unita a un profondo desiderio di rivalsa; dall'altro, la raffigurazione di una convivenza pacifica fra bianchi e neri, in un'atmosfera conciliante e benevola in cui dissolvere ogni accenno di rabbia sociale. Trent'anni dopo, nel pieno delle proteste per l'omicidio di George Floyd e dell'apogeo del movimento Black Lives Matter, le cose sono davvero cambiate?
This Is America: la questione razziale ieri e oggi
In un'America all'apice di un'emergenza sanitaria senza precedenti, il 25 maggio 2020 l'attenzione mediatica è stata deviata all'improvviso su qualcos'altro: un'ondata di indignazione che, dopo i tragici fatti di Minneapolis, si è propagata in tutto il paese, con una virulenza che non si era più registrata da almeno mezzo secolo. Un'indignazione accompagnata da un sacrosanto dibattito che, giocoforza, non poteva non estendersi anche alla cultura e al cinema: dalle polemiche legate al boom di visualizzazioni su Netflix per The Help, bollato come un film tutt'altro che esauriente rispetto alla piaga del razzismo in America, al temporaneo ritiro di Via col vento dal catalogo di HBO Max, al fine di predisporre un disclaimer sulla natura problematica del kolossal di Victor Fleming in merito allo schiavismo e alla Guerra di Secessione.
Si tratta di una questione estremamente dibattuta e complessa, in cui la richiesta di una maggiore visibilità per gli afroamericani e le loro rivendicazioni rischia di entrare in contrasto con le accuse rivolte alla cosiddetta cancel culture e alla dittatura del politicamente corretto. Come individuare il confine che separa queste due prospettive? Come trovare un terreno comune su cui procedere per affrontare il tema del razzismo senza che ciò comporti l'eradicazione di opere del passato? Un primo passo potrebbe consistere non solo nell'analizzare un film quale Via col vento, ma soprattutto il contesto in cui prese vita la trasposizione del romanzo di Margaret Mitchell, vale a dire l'industria che, fin dall'origine dello studio system, aveva stabilito una sistematica marginalizzazione di tutte le minoranze, in primis gli afroamericani: sia sul piano professionale, sia nella scelta di chi e cosa (non) sarebbe stato mostrato sul grande schermo.
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Alle radici del razzismo: Nascita di una nazione
Un quarto di secolo prima di Via col vento, un altro, imponente kolossal storico riscuoteva un gigantesco successo di pubblico, ridefinendo i canoni del linguaggio cinematografico: Nascita di una nazione, film seminale scritto, prodotto e diretto da David Wark Griffith. Uscito nelle sale all'inizio del 1915, Nascita di una nazione è basato su un romanzo pubblicato dieci anni prima da Thomas Dixon Jr, il cui titolo non potrebbe essere più emblematico: The Clansman - A Historical Romance of the Ku Klux Klan. Nel film e nel libro, ambientati durante la Guerra di Secessione, viene offerta una visione esplicitamente razzista della storia americana (una storia, in quegli anni, relativamente recente), in cui i neri sono dipinti come selvaggi, violenti e pericolosi: in una delle scene più note, la giovanissima Flora si uccide per evitare di essere stuprata dal nero Gus.
L'apologia del Ku Klux Klan, dipinto da Griffith come l'eroico strumento di un ordine sociale messo a repentaglio dalla concessione dei diritti civili agli ex schiavi di colore, è oggetto di infuocate contestazioni fin dall'uscita del film; ciò nonostante, l'immensa popolarità di Nascita di una nazione avrebbe portato, nell'arco di qualche mese, alla rifondazione stessa del Ku Klux Klan. Questo clima culturale, in cui agli afroamericani è negato addirittura il riconoscimento di una parità biologica rispetto ai bianchi, attecchisce in numerose aree degli Stati Uniti; e non molto è cambiato quando, nel 1939, Via col vento ripropone sullo schermo gli eventi della Guerra Civile attraverso l'ottica dei sudisti, pur senza addentrarsi nella natura politica di quel conflitto.
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Mammy e lo stereotipo della cameriera di colore
Cinque anni prima di Via col vento, nel 1934 entra in vigore il Motion Picture Production Code, meglio noto come Codice Hays, che sarà abolito solo nel 1968. Fra i numerosi elementi rigorosamente vietati dalle produzioni hollywoodiane, in un'epoca in cui i matrimoni misti erano ancora fuorilegge in gran parte degli Stati Uniti, c'era anche il tabù sui rapporti interraziali. Gli studios, dal canto loro, non volevano incorrere in boicottaggi negli Stati del Sud-Est, e pertanto a quasi tutti i personaggi di colore nei film del cinema classico era riservata una scarsa importanza: talvolta si trattava di semplici spalle comiche, spesso di membri della servitù. Rientra in questa categoria la figura di Mammy, la cameriera-schiava di Scarlett O'Hara interpretata in Via col vento da Hattie McDaniel.
Mammy, ruolo che fece diventare la McDaniel la prima interprete afroamericana a vincere un Oscar, costituisce il modello per antonomasia della cameriera di colore di tante pellicole degli anni Trenta e Quaranta: uno stereotipo a cui allude anche Ryan Murphy nella serie Netflix Hollywood (che in compenso, al di là delle buone intenzioni, non fornisce uno sguardo così illuminante sull'ambiente del cinema classico). Pochissime pellicole del suddetto periodo conferiscono spazio ai personaggi di colore e alla questione razziale: fra le rare eccezioni si segnala Lo specchio della vita di John M. Stahl, del 1934, in cui la domestica Delilah Johnson ha una figlia meticcia, Peola, che si vergogna delle proprie origini. Lo specchio della vita avrà anche un famosissimo remake nel 1959 diretto da Douglas Sirk, con Juanita Moore nei panni della cameriera Annie Johnson.
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A Change Is Gonna Come
Nel quarto di secolo che intercorre fra le due versioni de Lo specchio della vita, qualcosa a Hollywood comincia lentamente a cambiare. Nel 1949 Elia Kazan prende di petto la questione razziale nel film Pinky, la negra bianca, un melodramma su una ragazza di etnia nera ma dalla pelle molto chiara (impersonata però da un'attrice bianca, Jeanne Crain). Nel 1954 Otto Preminger porta sullo schermo il musical Carmen Jones, trampolino di lancio per una coppia di protagonisti di colore, Dorothy Dandridge e Harry Belafonte: la Dandridge, prima afroamericana candidata all'Oscar come miglior attrice, resterà sulla cresta dell'onda per poco tempo, spegnendosi a soli quarantadue anni; Belafonte, invece, viene consacrato come uno dei primissimi divi di colore insieme al coetaneo Sidney Poitier, che nel 1964 sarà il primo attore nero a vincere un Oscar da protagonista.
La fine del Codice Hays e i fermenti socio-culturali degli anni Sessanta saranno rispecchiati anche nel cinema americano: sempre Sidney Poitier, nel 1967, è il protagonista di due tra i film più amati dell'intero decennio, ovvero La calda notte dell'ispettore Tibbs di Norman Jewison, poliziesco imperniato sul sodalizio fra un detective nero e il capo della polizia di una cittadina del Mississippi, e Indovina chi viene a cena? di Stanley Kramer. Indovina chi viene a cena?, vero e proprio film-evento del 1967, è il frutto perfetto dello spirito liberal e progressista della Hollywood degli anni Sessanta, ma pure dei suoi limiti. Incentrata su una coppia interraziale, la pellicola di Kramer inserisce il personaggio di Poitier in una dimensione altoborghese, prediligendo l'armonia familiare dell'epilogo alla rabbia verso le discriminazioni razziali: una rabbia che sarebbe riesplosa, appena quattro mesi dopo, con l'uccisione di Martin Luther King.
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Cinema black e white savior
Dagli anni Settanta in poi, in virtù della maggiore libertà stilistica e tematica durante la New Hollywood, il cinema americano avrebbe ampliato i propri orizzonti, sebbene con estenuante lentezza: un progresso favorito dall'ascesa di superstar della musica black prestate occasionalmente al cinema, come Diana Ross, Michael Jackson, Prince e in seguito Whitney Houston, e di attori afroamericani che si sarebbero imposti fra i massimi talenti della propria generazione, quali Morgan Freeman e Denzel Washington. E se ancora negli anni Novanta i grandi studios appaiono restii a finanziare progetti legati alla comunità nera, alla sua storia e alle sue icone per timore di una mancanza d'interesse nel pubblico, saranno registi come Spike Lee a battersi per dimostrare - faticosamente - il contrario.
Ma l'altro dilemma, più vicino al nostro tempo, riguarda tuttora il modo in cui vengono raccontate storie basate sull'esperienza afroamericana, e nello specifico quel cliché narrativo definito white savior: un elemento che favorisce la focalizzazione di e su personaggi bianchi, pronti a battersi contro ingiustizie e razzismo accanto a comprimari neri più deboli e passivi. Se un antesignano del filone si può rintracciare nel classico Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan (e nel romanzo di Harper Lee), il ricorso al white savior ha assunto connotati ben più controversi in recenti successi quali The Blind Side, The Help e Green Book. Quando, agli Academy Award del 2018, proprio Green Book è stato proclamato miglior film dell'anno, si è avvertito un palpabile senso di delusione, alimentato dalla contrarietà di critici e appassionati, ma anche di attivisti politici e di uno Spike Lee (in gara quell'anno con il suo BlacKkKlansman) che non ha certo nascosto il proprio rammarico.
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Siamo anche noi parte del problema?
A prescindere dagli esiti artistici più o meno encomiabili di un film, l'elemento del white savior può costituire un veicolo per parlare di razzismo, ma c'è una ragione per cui spesso non si dimostra il veicolo più adatto: perché quasi sempre viene adoperato anche come strumento autoassolutorio, laddove la parabola edificante dell'eroe di turno e la catarsi finale esercitano un effetto taumaturgico sulla cattiva coscienza della maggioranza bianca. Con il rischio di sminuire o di mettere in secondo piano la prospettiva, la voce e il malessere della comunità nera, centrali invece in film come Moonlight e Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins o Scappa - Get Out di Jordan Peele, nonché quella rabbia a volte necessaria - si vedano le proteste di Black Lives Matter - al fine di produrre un reale cambiamento.
Per chi appartiene a una maggioranza, il primo passo per contrastare sul serio il razzismo può consistere dunque nell'ascoltare, nell'informarsi, nel provare a riconoscere le tare insite nel proprio sguardo (uno spunto illuminante, in tal senso, è offerto dall'opera di James Baldwin e dalle sue osservazioni riportate nel documentario I Am Not Your Negro di Raoul Peck); provando talvolta a chiederci se anche i nostri piccoli, inconsapevoli atti quotidiani potrebbero essere parte del problema. Lo stesso dubbio che, in un articolo intitolato Commentatore, David Foster Wallace si poneva a proposito dell'aderenza al politicamente corretto: "Sebbene ci siano un mucchio di aspetti del Politicamente corretto come dogma che non piacciono a persone ragionevoli, c'è anche qualcosa di inquietante nella gioia brutale, assertiva, con cui il sig. Z e altri presentatori conservatori sfidano tutte le convenzioni del PC. Se tu ti senti veramente ferito ascoltando o vedendo qualcosa e io decido che è mio dovere infliggerti quella cosa solo perché sono contrario ai motivi per cui ti ferisce, allora c'è qualcosa che non va nel mio senso delle proporzioni, o nel mio riconoscimento della tua umanità di base, o in entrambe le cose". Una riflessione che, tutto considerato, sarebbe bene tenere a mente.
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