Scrivendo la recensione di Ragnarok, nuova serie fantasy di Netflix di produzione norvegese, ci addentriamo nel regno sempiterno e affascinante dei miti norreni, come suggerito già dal titolo: nella mitologia nordica, il Ragnarök è la fine di tutto, la battaglia finale tra le divinità e le forze del male, un conflitto epocale culminante nella sommersione completa del mondo e nella sua successiva rinascita, guidata da due superstiti umani, Lif e Lifthrasir. Nella cultura popolare il termine è associato soprattutto al film supereroistico Thor: Ragnarok, contenente un approccio piuttosto demenziale al concetto della fine del mondo. Approccio che in questa sede non c'è, poiché il nuovo serial della società di streaming sceglie di fare il tutto "in casa", aggiornando i miti ai giorni nostri.
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Adolescenza divina
Al centro di Ragnarok c'è Magne, un giovane che si trasferisce, insieme alla madre e al fratello, nel paesino di Edda, nel nord della Norvegia. La famiglia viveva lì in precedenza, ma se n'era andata dopo la morte del padre di Magne. Il ragazzo, affetto da dislessia, fatica a integrarsi a scuola, salvo per l'amicizia con un paio di coetanei. Un tragico incidente, unito a un presunto complotto legato all'industria locale e all'inquinamento dell'acqua, lo portano a rendersi conto di possedere capacità sovrumane, e così Magne scopre di essere implicato in un conflitto millenario tra dei e giganti, con questi ultimi che si sono insediati per anni nell'alta società di Edda. Un nuovo Ragnarök è alle porte? E Magne - o meglio, Thor reincarnato - sarà in grado di impedirlo?
La storia si ripete
Il fascino del mito norreno torna a manifestarsi con regolarità, che si tratti dell'opera lirica di Wagner (e della successiva rielaborazione cinematografica delle medesime leggende ad opera di Fritz Lang), dei fumetti della Marvel o della recentissima rilettura, più fedele al canone originale, del grande autore fantasy Neil Gaiman. Nel caso della serie creata da Adam Price, noto autore televisivo danese, l'aggiornamento aderisce a determinati stilemi drammaturgici, tipici del teen drama e del genere young adult, ma si mostra anche sottilmente filologico: ogni episodio si apre con la definizione di un termine-chiave (nell'ordine: Ragnarök, Thor, i Giganti, i Mostri del Caos, la veggente Volven e la profezia di quest'ultima), e l'attualizzazione tramite la critica del consumismo nordico e il discorso ambientalista ha quel giusto sapore locale e tradizionale, dando all'apocalisse di allora un corrispettivo odierno molto plausibile. Senza dimenticare, ovviamente, la scelta molto simbolica del nome della località dove avviene il tutto: nel contesto della serie Edda fu l'ultimo posto in Norvegia ad adottare il Cristianesimo, ma il rimando filologico è alle due principali raccolte dei miti norreni, l'Edda Poetica e l'Edda Prosaica.
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Alcuni critici americani hanno paragonato la serie a Twilight, ma l'accostamento più pertinente sarebbe qualcosa come Smallville: un paesino minacciato dall'industria, un magnate corrotto e un giovane che scopre gradualmente i propri poteri dovuti al suo non essere esattamente di questo mondo. Solo che in questo caso l'approccio è serializzato dall'inizio (laddove la serie sul giovane Clark Kent cominciò ad avere una trama orizzontale solo a partire dalla seconda annata), con una struttura da tipico viaggio dell'eroe che è esplicitamente evocata a livello di dialoghi. E come nelle migliori produzioni americane di questo genere, l'equilibrio tra dramma adolescenziale e paranormale produce risultati affascinanti. In tale ottica, l'aspetto migliore è senz'altro il villain principale, Vidar, un ruolo che sfrutta come si deve la "doppia personalità" dell'attore Gisli Örn Gardarssson (nato in Islanda ma cresciuto in Norvegia, parla perfettamente entrambe le lingue): da un lato il classico uomo d'affari che pensa pragmaticamente al proprio benessere, dall'altro la creatura millenaria che si esprime nell'antica lingua norrena (la cui pronuncia è praticamente identica all'islandese moderno), trasformandosi sotto i nostri occhi senza neanche doversi sottoporre a una mutazione fisica.
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Fine o inizio?
Questo è il secondo Netflix Original legato alla Norvegia, dopo The Innocents, ma in questo caso c'è un vero progetto dietro, capace di dare ad ogni capitolo il giusto respiro individuale, anziché produrre una matassa confusa dove un concetto di massimo due ore viene allungato a dismisura. Ed è forse lì che si cela l'unica componente frustrante della serie: dopo sei episodi relativamente brevi (massimo 50 minuti ciascuno), arriva l'immancabile invito a rimanere sintonizzati in vista di una seconda stagione, attualmente non certa ma comunque altamente probabile. Detto ciò, l'elemento "incompleto" è anch'esso a suo modo coerente, come ci ricorda Volven proprio nell'ultimo episodio, con la battuta che riassume il fascino di qualunque produzione seriale di questo tipo: "Molti pensano che il Ragnarök sia la fine di tutto. Si sbagliano. È solo l'inizio." Un inizio indubbiamente accattivante, che si conosca o meno la materia di base.
Conclusioni
Giungendo al termine della recensione di Ragnarok ci dichiariamo soddisfatti di questa rilettura dei miti nordici a base di teen drama, viaggio iniziatico e critica sociale che si rifà alle preoccupazioni odierne. A suo modo, Thor è tornato a casa, con risultati divertenti e intriganti.
Perché ci piace
- Il cast è affiatato e carismatico.
- L'aggiornamento dei miti è interessante e divertente.
- Il cattivo è strepitoso.
Cosa non va
- Peccato che siano solo sei episodi.