Radiografia di una perdita
Numerosi sono i film incentrati sul senso della perdita e sull'elaborazione del lutto. Numerosi sono anche i film dedicati alle "vittime di guerra" e ai loro cari sopravvissuti (la filmografia americana pullula di gelidi ritratti mortuari causati dalla ferita del Vietnam). L'estenuante conflitto iracheno e la sua ricaduta sulla società civile statunitense hanno riacceso l'interesse nei confronti di simili tematiche, anche se forse ci vorrà ancora del tempo prima di riuscire a maturare uno sguardo compiuto e distaccato che si erga al di là delle (immense, ma contingenti) tragedie quotidiane.
Grace Is Gone, rispetto ai tanti film che lo hanno preceduto, si segnala per l'insolito ribaltamento "di genere" che si verifica in contesto bellico. A essere caduta sul fronte iracheno è, per l'appunto, un soldato donna, la Grace del titolo, che lascia un marito vedovo, Stanley, e due figlie orfane, Heidi e Dawn. Stanley ha sempre creduto nell'istituzione militare: arruolatosi subito dopo il liceo (ha conosciuto Grace in caserma), è stato in seguito riformato per problemi alla vista. La moglie è dunque partita per l'Iraq, lasciando solo Stanley nel compito a lui poco consono di badare alla famiglia e crescere le figlie. All'inizio del film, provoca un'indubbia sensazione di straniamento vedere Stanley, unico uomo in un circolo di donne con mariti al fronte, che viene interrogato sull'ultima notte d'amore passata con la sua sposa prima della partenza.
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L'aspetto più interessante di Grace Is Gone è proprio il suo essere un racconto di formazione delle due bambine, che segna il passaggio dalla loro infanzia all'età adulta. L'evoluzione si nota soprattutto in Heidi, sicuramente il personaggio più complesso e problematico dell'intero film. Stanley, infatti, confermando la sua natura di "miope" non solo dal punto di vista fisico ma anche mentale, rifiuta anche dopo la morte della moglie di mettere in discussione le istituzioni e il loro operato. In lui non matura mai una vera e propria presa di coscienza, come ci si aspetterebbe in una situazione del genere. E naturalmente non serve a nulla contrapporre il suo personaggio a quello del fratello John, l'unico rappresentante dell'alternativa liberal e pacifista all'interno del film, che è dipinto non a caso come un inetto nullafacente, in nessun caso credibile.
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James C. Strouse nasce come sceneggiatore (con Lonesome Jim) e anche in questo suo esordio alla regia mantiene inalterata la tendenza al predominio della scrittura. Va detto che Strouse non riesce sempre a trattare un tema così delicato con il rigore necessario, cadendo a volte in soluzioni stucchevoli (come la piccola Dawn che punta la sveglia alla stessa ora della mamma per sentirla vicina). La macchina da presa si eclissa e lascia tutto il campo libero agli attori, che mai come in questo caso costituiscono i cardini su cui poggia l'intero film. A partire ovviamente dalla grande prova di John Cusack, che ha voluto fortemente questa parte tanto da essere coinvolto anche in veste di produttore, sperando in una definitiva consacrazione ufficiale (magari con un Oscar).
Nota a margine per la colonna sonora confezionata da Clint Eastwood, dall'inconfondibile minimalismo, che pero fa uno strano effetto sentire in un'opera non diretta da lui.