È con il ricordo accorato di un amico che si apre l'indagine di Rabin, the Last Day. Shimon Peres racconta la divisione che affliggeva il popolo e la politica israeliana in quella seconda metà del 1995, racconta la violenza delle aggressioni fisiche e verbali che il primo ministro subì negli ultimi mesi della sua vita, dopo la firma degli accordi di Oslo al fianco Yasser Arafat.
Racconta l'uomo che Yitzhak Rabin è stato fino all'ultimo, un uomo che, dopo aver fatto la guerra per ventisette anni, aveva saputo trovare la via per la pace, anelito della maggior parte degli israeliani. Un uomo che non rinunciò mai a un impegno, non cambiò mai rotta, non chinò la testa di fronte alle minacce, alle grida, agli sputi, per arrendersi solo di fronte ai tre colpi di pistola esplosi da Yigal Amir.
L'ho ammirato allora più che mai
La notte del 4 novembre
Dopo l'ultima risposta di Peres, Amos Gitai ci riporta a quella sera del 4 novembre 1995 e alle incontenibili espressioni di gioia a sostegno degli accordi di Oslo nella piazza che oggi è intitolata a Yitzhak Rabin. Ad accompagnare le immagini della festa, la voce profonda, l'emozione composta del discorso del premier, il suo messaggio al suo popolo e a tutti i popoli. E poi quegli ultimi momenti concitati, l'auto ufficiale parcheggiata in un'area non sicura attigua alla piazza, subito oltre le scale del municipio. Il primo momento in cui Gitai inizia ad appaiare ai documenti d'epoca la sua attenta e sofferta ricostruzione è proprio quello dell'attentato: una sequenza efficace ed emozionante, l'inquadratura obliqua, un abbraccio nel sangue tra Rabin e il suo principale bodyguard e la corsa disperata e inutile verso l'ospedale di Tel Aviv. L'ultimo giorno di Yitzhak Rabin è già concluso, la ricerca di Gitai è appena iniziata.
Oltre a mostrare i documenti dell'epoca e la risonanza mediatica dell'omicidio, il regista ricostruisce i lavori della commissione d'inchiesta che indagò sulle falle organizzative e di sicurezza che permisero al suo assassino Yigal Amir di avvicinarsi a Rabin, e illustra con agghiacciante penetrazione i fermenti antigovernativi che crearono terreno fertile per l'attentato.
Israele dopo Oslo
Leah Rabin conferma le parole di Peres quando parla delle serenità di suo marito, la sua fiducia negli uomini della sicurezza, la persuasione che la cosa più vile e orribile non potesse accadere; una fiducia che ci sembra più incredibile man mano che Gitai ci immerge nel clima di quelle settimane. Oltre che invisi al Likud di Netanyahu, infatti, per gli ultraortodossi gli accordi di Oslo erano erano blasfemi: la città sacra di Hebron, un cimitero ebraico, e altri territori occupati di interesse religioso dovevano essere liberati per favorire il ritorno delle famiglie palestinesi. Le immagini di repertorio delle manifestazioni del Likud, qui, forniscono un contrasto eloquente con quelle della piazza del 4 novembre: alla gioia si contrappone la rabbia, alla solidarietà la violenza, ai canti di pace le caricature grottesche e i feroci proclami di morte contro Rabin.
Negli istituti religiosi e nelle sinagoghe, nel frattempo, si cercano nella Torah e nel Talmud giustificazioni ad azioni violente nei confronti del Premier. Gitai non si dilunga nel tratteggiare la figura di Yigal Amir, ma pochi elementi oculati sono sufficienti a farne sia un personaggio convincente sia un plausibile strumento da una vasta cospirazione ai danni dell'esponente più in vista di un governo "traditore" e "votato a Satana". Su tale cospirazione Gitai non dispone certo di prove schiaccianti, ma è in grado di riferire circostanze abbastanza sospette da far pensare che se ampi settori dell'autorità religiosa abbiano per lo meno incoraggiato, se non supportato, il gesto di Yigal Amir.
L'uomo che voleva la pace
Quanto a Rabin, a Gitai non interessa offrire una disamina della personalità, dell'operato, delle contraddizioni dello statista, ma la scelta dei documenti è efficace nell'illuminare il suo pensiero: basti citare una dichiarazione a proposito del (precoce) ritiro dalla Striscia di Gaza, in cui Rabin dà prova del senso di responsabilità e della lungimiranza politica che hanno caratterizzato il suo ultimo mandato.
Nel complesso, dunque, Rabin, the Last Day è un documento storico prezioso estremamente interessante anche dal punto di vista cinematografico grazie alla sapiente gestione del materiale d'epoca, sempre accompagnato da un commento musicale essenziale ma evocativo, e alla tensione morale e investigativa che pervade le sobria e geometrica messa in scena delle sequenze di ricostruzione. Oltre a tutto ciò, il film di Gitai è un potente atto d'accusa verso lo Stato d'Israele ereditato da Benjamin Netanyahu e al centro di tante esplosive questioni del mondo contemporaneo.
Movieplayer.it
4.0/5