"Voglio che vi alziate proprio adesso, andiate alla finestra e l'apriate e vi affacciate tutti ed urliate: sono incazzato nero e tutto questo non lo accetterò più!". La rabbiosa invettiva in diretta televisiva del giornalista Howard Beale, pronunciata con toni furibondi dall'attore australiano Peter Finch, resta una delle scene di culto negli annali del cinema americano, nonché uno dei momenti emblematici della capacità, da parte dei film della New Hollywood, di dare voce al malessere e alla crisi della società degli anni Settanta: una società reduce dall'ecatombe del Vietnam, disillusa dalla politica (la gestione della guerra, lo scandalo Watergate) e in preda alla recessione economica scatenata dall'embargo sul petrolio. A farsi voce delle frustrazioni della "gente comune" è il protagonista di Quinto potere, probabilmente il film più celebre nella vastissima produzione - oltre quaranta pellicole per il grande schermo, a cui vanno aggiunti numerosi progetti televisivi - del regista Sidney Lumet.
Nato a Philadelphia il 25 giugno 1924 da una coppia di attori polacchi emigrati negli Stati Uniti e cresciuto a New York, città che avrebbe fatto da sfondo a molti dei suoi film, Sidney Lumet ha applicato all'attività di regista le capacità acquisite negli anni Cinquanta lavorando per il teatro e la televisione. Il suo memorabile esordio dietro la cinepresa, La parola ai giurati, candidato all'Oscar e insignito dell'Orso d'Oro al Festival di Berlino 1957, già mette a frutto le sue precedenti esperienze: adattamento di un testo televisivo firmato tre anni prima da Reginald Rose per la CBS, è un incalzante dramma basato su una rigorosa unità di tempo, luogo e azione. L'essenzialità dei mezzi, nelle mani di Lumet, diventava funzionale all'esplorazione dei personaggi, all'emergere delle tensioni fra di essi e alla valorizzazione degli attori: dai formidabili 12 angry men de La parola ai giurati, capitanati da Henry Fonda in uno dei suoi ruoli più belli, alla matriarca di Katharine Hepburn ne Il lungo viaggio verso la notte, trasposizione dell'opera teatrale di Eugene O'Neill, senza dimenticare lo struggente Rod Steiger de L'uomo del banco dei pegni.
La New Hollywood e il capolavoro di Sidney Lumet
Professionista versatile, che dagli anni Sessanta in poi si sarebbe cimentato nei generi più diversi, Sidney Lumet tornerà però sulla cresta dell'onda grazie alla New Hollywood. Il crudo realismo del cinema americano degli anni Settanta e l'inedita attenzione ad istanze politiche e sociali ben si coniugano alla sensibilità del regista, che fra il 1973 e il 1975 dirige due fra le pietre miliari del decennio, entrambe interpretate da un indimenticabile Al Pacino: Serpico, amaro poliziesco sulla corruzione morale del sistema, e Quel pomeriggio di un giorno da cani, perfetta sintesi dello smarrimento e delle pulsioni di ribellismo dell'America contemporanea. Ma è nel 1976 con Quinto potere (in originale Network), basato su un elettrizzante copione del suo amico Paddy Chayefsky, che Sidney Lumet realizza il suo massimo capolavoro: una stupefacente commistione fra dramma e satira, incentrata sui rapporti di potere all'interno di un fittizio network televisivo, la UBS, in cui la gara per gli ascolti porterà a conseguenze fuori controllo.
Investito da un'immediata consacrazione, Quinto potere si aggiudica quattro premi Oscar per i protagonisti Peter Finch e Faye Dunaway, per l'attrice supporter Beatrice Straight e per la sceneggiatura di Paddy Chayefsky, mentre Sidney Lumet riceve il Golden Globe e la nomination all'Oscar come miglior regista (nel 2005, l'Academy gli attribuirà invece il premio alla carriera). Mirabile espressione dello Zeitgeist della metà degli anni Settanta, ma opera in grado anche di anticipare con sorprendente acutezza le inquietanti derive della TV e dei media nel corso dei cinquant'anni a venire, Quinto potere ci fornisce un esempio magistrale del talento di Lumet. Ancora una volta, quello che sulla carta appare come una sorta di Kammerspiel, totalmente imperniato sui fittissimi dialoghi scritti da Chayefsky (riproposti sul set con inviolabile fedeltà al copione), sullo schermo assume un'intensità quanto mai vibrante: i confronti verbali fra i personaggi si coniugano alla tensione visiva legata alla messa in scena di Lumet e alla fotografia di Owen Roizman, giocata principalmente sulla penombra asfissiante degli interni.
Quinto potere: il capolavoro nerissimo di Sidney Lumet sulla TV di ieri, oggi e domani
Mad as hell: scene di ordinaria follia
Ed è nella semi-oscurità metropolitana, fra i rumori del traffico, che nella scena d'apertura ci vengono introdotti Howard Beale, l'anchor-man di Peter Finch, ormai prossimo al licenziamento, e il suo amico di lunga data Max Schumacher, presidente della divisione notizie della UBS, ruolo assegnato al veterano William Holden. Da lì in poi, osserviamo la macchina da presa di Sidney Lumet muoversi con discrezione fra i corridoi e gli uffici del network: una regia 'invisibile' che si introduce nella quotidianità del luogo di lavoro di Howard e Max, offrendoci frammenti delle riunioni di redazione e catturandone la routine. L'impressione iniziale è quella di un cinéma vérité, modello di gran parte della New Hollywood, ma si tratta di un modo per evidenziare il contrasto con la straordinarietà di quanto sta per accadere: Lumet non riserva infatti la minima enfasi all'annuncio del suicidio di Howard Beale, accolto con pigra disattenzione dalla cabina di regia del notiziario, fin quando qualcuno non fa notare quanto ha appena dichiarato il giornalista.
La comicità, in Quinto potere, nasce proprio da questa contrapposizione: la progressiva bizzarria delle scelte dei dirigenti del network, e di pari passo la discesa di Howard Beale in una spirale di follia, sono rappresentate quasi sempre con una compostezza che accentua l'aspetto straniante della storia. Un caso su tutti, la grottesca discussione sulle clausole contrattuali fra i delegati della UBS e i terroristi affiliati all'Esercito di Liberazione Ecumenico, con il loro leader, il Grande Ahmed Kahn (Arthur Burghardt), che spara colpi d'arma da fuoco per ristabilire l'ordine. Quando al contrario Lumet abbandona tale compostezza, la forza che ne deriva ha un impatto innegabile: si veda l'iconica sequenza in cui Beale si lancia nel proverbiale monologo "I'm as mad as hell", con l'inquadratura che si restringe sul mezzo busto dell'anchor-man, fino ad inquadrare in primo piano il volto di Peter Finch contratto dalla rabbia; e infine la chiusura, con la ripresa delle persone urlanti alle finestre dei palazzi, illuminate dai bagliori dei lampi in un'apocalittica serata di tempesta.
Sidney Lumet: in 7 grandi film del regista, la crisi morale degli USA
Monologhi da incubo e faccia a faccia da Oscar
Altra scena fondamentale del film, e altra punta di diamante della regia di Lumet, è il monologo di Arthur Jensen, presidente della CCA (Communications Corporation of America), sulle "forze primordiali della natura". Il personaggio, affidato al caratterista Ned Beatty, si erge di fronte ad Howard Beale in una grande sala buia, per illustrare al giornalista la sua filosofia sul mondo come "un insieme di corporazioni", governato non da nazioni, ma dalle leggi del business. Un fluviale monologo della durata di cinque minuti che Sidney Lumet sceglie di riprendere mediante una serie di inquadrature fisse, dal lato opposto di un lungo tavolo, che corrispondono alla soggettiva di Howard: Jensen rimane in fondo, alla destra dello schermo, in corrispondenza del punto di fuga verso cui convergono due file di lampade. L'attenzione dello spettatore viene così inchiodata all'esaltata ferocia del discorso del dirigente, mentre l'intera scena assume i contorni di una spaventosa allucinazione che si manifesta davanti allo sguardo attonito del "pazzo profeta dell'etere".
Se in momenti come questi Sidney Lumet esalta la dimensione surreale, quasi ai limiti dell'assurdo, in altri casi la sua regia adotta l'impostazione più classica di campi e controcampi per mettersi al servizio dei sentimenti dei personaggi. È il caso della confessione di infedeltà di Max Schumacher e della reazione furiosa di sua moglie Louise, scena che varrà l'Oscar a Beatrice Straight per un ruolo di appena cinque minuti; e ancor più del confronto finale fra Max e Diana Christensen, la spregiudicata responsabile dei programmi della UBS, incarnata da una sublime Faye Dunaway con un amalgama micidiale di carisma, freddezza e nevrosi. In un film attraversato da una graffiante ironia, Lumet dirige il faccia a faccia fra Max e Diana lasciando spazio invece a una dolorosa sincerità: i primi piani catturano tutta la rassegnata disillusione di William Holden e, per la prima volta, la fragilità che trapela dal viso di Faye Dunaway, da quegli occhi velati di lacrime mentre il suo "ultimo contatto con la realtà umana" si accinge a dirle addio, per abbandonarla definitivamente al "nulla isterico" della TV.