Come un temuto cowboy in un vecchio saloon, come un abile cocchiere sulla sua fidata carrozza. Così appare Quentin Tarantino in una conferenza stampa: a suo agio, nel suo habitat. Parole, cinema, citazioni. Uno come lui non potrebbe chiedere di meglio. Non è andata diversamente questa volta, in una delle tappe di presentazione della sua ottava e corposa opera chiamata The Hateful Eight, un western da camera dove le lingue assomigliano a dei grilletti e le battute feriscono meglio di un pugnale affilato puntato sulla gola.
In una conferenza stampa tenuta a Roma, al fianco di un combattivo Ennio Morricone, un Kurt Russell in grande forma e un Michael Madsen in abiti da rockstar, Tarantino si è presentato con il sorriso rilassato di chi sta per condividere la sua grande passione con altri amici. Addosso una t-shirt dell'Università di New York ma nessuna voglia di discorsi accademici, perché le sue labbra trasudano, come sempre, grandi dosi di entusiasmo, misto a quella naturale allergia alla banalità, che porta i suoi fan a dargli del "genio", e qualche detrattore a spacciarlo del "pazzo". Lui, forse, prenderebbe più il secondo come complimento.
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Bastardi scatenati
A differenza di The Hateful Eight, che è un lento gioco di diplomazia che si incrina poco alla volta, la conferenza stampa entra subito nel vivo della poetica tarantiniana, nel cuore che batte in tanti dei suoi film. Anche qui, nel gelo paralizzante del Wyoming, è difficile non notare come i suoi personaggi non possano fare a meno di travestirsi da qualcun altro, di essere costretti alla messa in scena per raggiungere il loro scopo o, molto più semplicemente, sopravvivere. Tarantino ammette: "Si, in effetti quello del mascheramento è una dinamica molto ricorrente nei miei film. Forse con l'unica eccezione di Pulp Fiction, in tanti miei racconti la finzione ritorna come una costante. Non so esattamente perché accada, ma succede. E, a ben pensarci, a volte il fatto che questo camuffamento riesca o meno incide direttamente sulla vita o sulla morte del mio personaggio. Sicuramente è un aspetto drammatico che mi piace esplorare anche perché ho sempre avuto grandi attori da mettere alla prova con queste maschere".
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Il regista scansa come pallottole le polemiche legate alle presunte nomination razziste dell'Academy ("Mi dispiace davvero per Samuel L. Jackson che avrebbe meritato la candidatura, ma se avessero nominato me, io agli Oscar ci sarei andato, eh"), mentre preferisce addentrarsi in un'analisi della sua filmografia. Un giornalista gli fa notare una certa somiglianza tra The Hateful Eight e La cosa di John Carpenter, così mentre Morricone difende con tenacia l'originalità delle sue musiche western rispetto a quelle più elettriche utilizzate nel 1982 ("devo dire che Quentin mi ha dato grande libertà espressiva nella composizione della colonna sonora, mentre Carpenter, al tempo, scartò diverse tracce"), Tarantino approva: "Si, è un parallelismo che ci può stare, ma in realtà il mio film che è stato più influenzato da La cosa è stato proprio Le iene.
C'è una sorta di relazione simbiotica tra questi tre film e, infatti, potrei definire The Hateful Eight una versione de Le iene in salsa western. Da Carpenter ho certamente ripreso uno stato di profonda paranoia che fa sottofondo e tre elementi cruciali: la neve opprimente, un gruppo costretto alla convivenza forzata e il fatto che tra loro serpeggi una grande sfiducia reciproca". Ed ecco che, da grande attore qual è, Kurt Russell interviene con ottimo tempismo dicendo: "Beh, io ho girato due film con Quentin e ben cinque con John. Sono orgoglioso e soprattutto molto fortunato ad aver lavorato con entrambi". Intanto, Michael Madsen, anche senza aver ancora proferito parola, riesce a prendersi la scena semplicemente aggiustandosi uno dei suoi tanti ciuffi ribelli.
Tutti i generi. Nessun genere
The Hateful Eight è un serrato duello dialettico, vissuto su un sottile filo di tensione. Un gioco di società in cui otto personaggi detestabili mettono in scena un microcosmo improvvisato, dove regole, vincitori e vinti si scoprono lentamente. Una variazione dai soliti, forsennati ritmi tarantiniani, confermata da una scelta ben precisa dell'autore: "Questo film è decisamente diverso dagli altri, perché è molto teatrale, il che significa basarsi su dei tempi molto più dilatati e rilassati del solito. Se il ritmo è compassato, il tono del film è invece molto vario, perché adoro giocare con i registri e i generi del cinema. Sono un giocoliere dei generi, credo sia uno dei miei più grandi talenti. Per questo film ho iniziato a scrivere con la consapevolezza di creare un western con atmosfere misteriose alla Agatha Christie, da giallo claustrofobico. Alla fine, quasi inconsciamente, è venuto fuori anche un certo gusto per l'horror. Questo effetto cumulativo è un pregio secondo me, soprattutto nei confronti del pubblico, che è libero di trovare nel film quello che cerca. Paga il prezzo per un film e poi ne guarda tanti messi assieme".
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Dal genere cinematografico al genere sessuale, il passo è breve. Questo perché non sono mancate evitabili e forzate critiche legate al personaggio della bandita-prigioniera interpretata da un'ottima Jennifer Jason Leigh, sul quale, a detti di alcuni, Tarantino si sarebbe eccessivamente accanito con particolare violenza ed eccessivo compiacimento. Il regista smorza ogni polemica con grande serenità: "Ho sempre scritto quel personaggio pensando fosse una donna, ma a ben pensarci, se fosse stato un omone di 150 chili non sarebbe cambiato nulla. L'accanimento nei suoi confronti è dovuto soltanto all'atteggiamento del boia che tenta di terrorizzare ogni suo ostaggio. Si capisce che è un suo modo di fare, adottato con tanti altri e non solo con Daisy. Certo, è chiaro che il fatto che sia una donna altera la sua percezione e comunica emozioni diverse rispetto a un uomo, ma il personaggio non è vittima di alcun astio di genere". Al di là di tanti personaggi fortemente caratterizzati, mai come in questo caso, lo scenario e l'ambientazione sono stati parte attiva all'interno dell'angusto contesto narrativo costruito da Tarantino: "The Hateful Eight è scisso nettamente tra interno e esterno.
Dentro l'emporio siamo nel bel mezzo di una grande partita a scacchi tra gli otto personaggi, dove ogni mossa è lenta e calcolata, almeno sino all'esplosivo finale. Una suspense ottenuta grazie anche alla pellicola 70 mm che mi ha permesso di mettere in evidenza i due piani teatrali presenti sullo schermo: la scena e la controscena, il primo piano e lo sfondo. Fuori, invece, c'è la tempesta che per me è un mostro vero e proprio. Una presenza inquietante impossibile da sfidare che aleggia su tutto e tutti, minacciando di divorare qualsiasi cosa. L'incombere della tempesta di neve, sempre più minacciosa, incide su tanti elementi visivi: la luce, i respiri, i volti dei personaggi". Una bufera incontenibile come questo regista per cui una conferenza stampa lunga meno di un'ora non basterà mai a contenere e a raccontare la sua visione irrequieta di un cinema sempre ispirato.
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L'impegno, il ricordo e il Leone
Puro divertimento o impegno sociale? Cosa c'è nei film di Tarantino? La risposta non è in nessuna delle due, ma si trova in entrambe. "Questo film ha un vocazione politica molto meno spiccata rispetto a Bastardi senza gloria e Django Unchained, infatti non vi era traccia di impegno sociale nelle mie idee iniziali. Poi è successo che i personaggi hanno iniziato ad avere una vita loro, ad esprimere opinioni proprie e quindi a scomodare una loro visone del mondo. E il loro era un mondo appena uscito dalla Guerra Civile americana, abitata da nordisti e sudisti, afflitta da contrasti razziali e scorie belliche. Poi c'è una cosa che accade spesso durante un film: si torna a casa, si leggono i giornali, si guarda la televisione e la realtà irrompe nella finzione cinematografica. Così tanti elementi reali sono per forza di cose entrati di prepotenza nel film". Una visione osmotica confermata anche da Michael Madsen che commenta: "Era già successo ai tempi de Le Iene di Kill Bill. La realtà entra sempre nei film di Quentin e davanti a tante problematiche concrete, i suoi film hanno spesso hanno proposto soluzioni molto più semplici e dirette di quelle proposte da altri media".
Dopo essersi lasciato andare ad un sincero e toccante ricordo di suo padre ("non ha stimato tanti miei ruoli, ma avrebbe amato questo film e sarebbe stato fiero di me"), Madsen ha anche fornito un interessante punto di vista sul modo in cui Tarantino ha spesso affrontato il tema del razzismo: "In The Hateful Eight c'è un aspetto paradossale che quasi anestetizza il potere del razzismo. Nel film si usa di continuo il termine negro, in maniera talmente eccessiva che il suo potere denigratorio viene svilito. Tutto si risolve in uno sterile intercalare usato per pura abitudine, un modo di dire sgonfiato di qualsiasi carica violenta". A proposito di impegno, Kurt Russell segue il collega a ruota, parlando del carattere del suo personaggio, il ruvido boia John Ruth: "Ho avuto un grande onore nel poter interpretare questo personaggio così complesso. Ruth è un uomo che in qualche modo incarna un particolare valore americano, ovvero il diritto ad essere processato che chiunque può e dovrebbe avere. Si tratta di un principio molto legato al concetto di Giustizia che tocca anche una persona piccola, anche apparentemente insignificante. Questo diritto è stato per anni una pietra miliare della giustizia americana. Tra l'altro, trovo molto significativo come all'interno del film, nonostante il conflitto tra bianchi e neri sia ancora in atto, il personaggio di Samuel L. Jackson onori la condotta del mio Ruth".
E se si parla di western in Italia, alla presenza dei due figli di Sergio Leone, è davvero impossibile non scomodare la folle adorazione che Tarantino ha sempre nutrito nei confronti del maestro italiano. Mentre in Quentin monta un entusiasmo evidente, Raffaella Leone ammette: "Sono una fan dichiarata di Quentin, adoro ogni film di questo regista geniale. Sono certa che, se fosse in vita, nostro padre sarebbe orgoglioso del suo lavoro". Talmente fiero che, molto probabilmente, il buon Sergio definirebbe "un Tarantino" uno dei suoi celeberrimi primi piani stretti sugli occhi dei cowboy. E, come in un duello pacifico pieno di stima, Tarantino replica immediatamente, dicendo di aver definito una sua ripresa dall'alto come un "Sergio Leone point of view". Così, anche una semplice conferenza stampa può avere un bellissimo titolo di coda.