Quel che resta del tempo
Hanno un nome, ma non un cognome, solo un'iniziale che aiuti a distinguerli, smistarli, marcarli. Hanno sangue, cervello, viscere, sesso, ma non hanno genitori, soltanto guardiani. Hanno estro, sentimenti, ambizioni e desideri, ma non hanno un futuro. Sono speciali, i ragazzi di Hailsham, ma, reclusi come sono nel lindo istituto, nel cuore della campagna inglese, non hanno idea di cosa significhi essere speciali, e non ha nemmeno grande importanza, perché crescere significa indagare il proprio mondo, scoprire la propria identità e il proprio destino, qualunque esso sia. Ma per Kathy, Tommy e Ruth significa anche condividere un percorso intenso e doloroso che li terrà legati a doppio filo fino alla fine delle loro brevi e oscure esistenze.
Non lasciarmi, tratto dall'omonimo, incantevole e struggente romanzo di Kazuo Ishiguro, è sostenuto dalla voce-off di Kathy H., narratrice in prima persona del libro, ma rinuncia alla strategia immersiva e intrigante del racconto di Ishiguro, in cui la giovane si rivolge al lettore dando per scontate delle conoscenze che questi non possiede e rivelando in maniera estremamente graduale la natura distopica della storia. Nel film di Mark Romanek questo elemento è palesato in apertura, e siamo ben presto messi a parte della tragica sorte dei piccoli ospiti di Hailsham, e della futilità degli aneliti dei tre protagonisti; ma non è certo questo da considerarsi il difetto di una sceneggiatura che lavora eccessivamente di lima rispetto al soggetto, lasciando troppo da dire alle espressive musiche di Rachel Portman e ai paesaggi tinteggiati di malinconia dal direttore della fotografia Adam Kimmel, ma soprattutto agli attori, il cui lavoro, in ogni caso, è eccellente. Carey Mulligan è una timida, generosa e fragile eroina, e Andrew Garfield regala al suo personaggio un vigoroso ma disperato afflato di vita. Entrambi fanno mostra di una maturità straordinaria che però già gli conoscevamo; stupisce invece Keira Knightley, autrice di una prova di grande energia, e in possesso di un carisma tale da mettere quasi in ombra i bravissimi colleghi e di lasciare il segno nelle poche sequenze che questo script un po' anemico le concede.
Il talento degli interpreti si trova a dover sopperire alle mancanze di una sceneggiatura sbilanciata al punto che, nonostante la grande portata emotiva della vicenda, l'empatia con i protagonisti non ingrana che nella parte finale della pellicola, quando i tre condividono la scena, seppure brevemente. La pecca principale del lavoro di Alex Garland, ancora più evidente al lettore di Ishiguro, è quella di tradire la centralità dell'esperienza di Hailsham, a cui il romanzo dedica le sue pagine più accorate perché in essa sono custodite la memoria e il sentimento comune dell'infanzia e dell'innocenza, elementi essenziale dell'universalità cui la storia aspira. Garland sembra voler chiudere quella pratica in fretta, per lasciare spazio - cosa cinematograficamente anche comprensibile - agli attori adulti, e Romanek non è abbastanza ispirato da imprimere in quelle sequenze molto più che una frazione della vitalità e dell'efficacia del romanzo.
Lo script di Garland è comunque abbastanza riuscito da veicolare i numerosi sottotesti e la profonda umanità della storia, accompagnati dagli alti valori tecnici e artistici dei vari reparti realizzativi; che la bellezza della trasposizione non sia paragonabile a quella dell'opera ispiratrice, è un fatto con cui quasi tutti gli adattamenti letterari, fatte salve alcune geniali eccezioni, devono confrontarsi; che l'impatto emozionale sia molto inferiore rispetto a quello del romanzo è forse un bene per gli animi sensibili e afflitti da tendenze depressive: perché la concezione dell'amore, del tempo e della vita di Ishiguro, che il film cerca di afferrare in maniera un po' maldestra nella chiusa, è lucida, lirica, contagiosa e infinitamente triste.
Movieplayer.it
3.0/5