Una casa che parla di infanzie perdute e vive attraverso vecchie foto, antiche leggende sciamaniche e luci che si accendono e si spengono a intermittenza. Tre fratelli che a pochi giorni dal Natale vi si ritrovano dentro riuniti dalla loro madre. Sono le atmosfere di Quasi Natale, il film in onda su Sky dal 26 febbraio che si era già fatto apprezzare allo scorso Festival di Torino imponendosi come piacevole rivelazione italiana. Il regista Francesco Lagi adatta il suo omonimo spettacolo teatrale: nella trasposizione realizzata insieme alla compagnia Teatrodilina, Lagi rimane fedele al testo e lo affida agli stessi attori che lo hanno interpretato a teatro. Anna Bellato (che a breve rivedremo nelle nuove puntate di Rocco Schiavone e si spera al cinema in Welcome Venice di Andrea Segre) è una di loro e in questo breve viaggio nell'ostinata tendenza delle cose a sopravviverci, interpreta Chiara, la sorella di Isidoro (Francesco Colella) e Michele (Leonardo Maddalena).
L'adattamento, le suggestioni, la casa
Che percorso ha seguito la trasmigrazione dal linguaggio teatrale a quello cinematografico?
Abbiamo sempre cercato di trovare un modo di stare in scena che risultasse vivo e vero pur all'interno di una finzione; il mezzo cinematografico amplifica tutto e rende forse anche meglio il senso di ciò che vorremmo raccontare. Il testo è rimasto lo stesso e così anche gli attori; Francesco Lagi ha voluto conservare una struttura simile a quella teatrale seppur con delle piccole modifiche, come ad esempio i momenti all'esterno, che però rimangono molto pochi. Mentre la casa che accoglie i tre protagonisti e che a teatro veniva semplicemente evocata, nella versione cinematografica c'è, esiste ed è un personaggio fondamentale e presente.
È una protagonista del film a tutti gli effetti: è viva e parla attraverso i ricordi, le vecchie foto, i cimeli preziosi, le luci che si accendono e si spengono a intermittenza. Come avete interagito con questo spazio?
L'abbiamo incontrata cercandola tra una serie di proposte, ma è quasi capitata, perché al di là dello straordinario lavoro della scenografa Cinzia Iademarco, aveva già in sé l'atmosfera giusta, che abbiamo cercato di mantenere con la paura di perderla. Quando abbiamo visto il film per la prima volta ci siamo accorti invece che quella suggestione era rimasta, anzi in certi momenti era anche stata amplificata dalla presenza di alcuni oggetti: l'albero di Natale, lo spirito delle cose che restano. Aveva in sé qualcosa di perfetto per un film che parla di ricordi e proietta lo spettatore in una bolla di sospensione nei giorni prima del Natale, quando parenti o amici con rapporti più o meno profondi si riuniscono. In questo caso a ritrovarsi sono tre fratelli chiamati dalla madre che deve comunicargli qualcosa di importante.
Cosa non doveva assolutamente succedere nel passaggio dal teatro al cinema?
Francesco ci teneva che fossimo vivi l'uno sull'altro, sempre in ascolto, fedeli al testo e senza improvvisazioni particolari. Era importante trovare delle strade non scontate e raccontare le diverse sfumature e dimensioni dei sentimenti: dovevamo fare spazio al racconto di più emozioni insieme, come succede nella vita e riuscire ad esempio a mantenere l'ironia e la leggerezza anche nei momenti più bui, drammatici e malinconici o viceversa. L'indicazione principale era muoversi tra binari diversi.
Quasi Natale è un film di atmosfere, di assenze, rapporti, leggende e vecchi racconti di sciamani pellerossa. Da attori qual è il segreto per evocare sullo schermo l'irrappresentabile?
Parte della nostra forza arrivava da un testo molto solido e dal lavoro di Francesco nel muovere gli attori in un certo modo: era come stare sempre sul filo, senza mai adagiarci o stare comodi. E poi siamo un gruppo, conoscerci ci ha aiutato molto a creare una sintonia, suonavamo tutti la stessa musica. Questi personaggi ce li siamo cuciti addosso, mentre preparavamo lo spettacolo abbiamo avuto modo di lavorarci in maniera più profonda rispetto ai tempi di lavorazione di un film.
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Personaggi in cerca d'autore: tra scazzottate e ricordi d'infanzia
Quali certezze avete dovuto abbandonare?
Tante, ci siamo dovuti affidare e fidare di tutto ciò che ci stava intorno: dall'occhio di chi avrebbe scelto come raccontarci, alla fotografia e alla casa stessa.
La rappresentazione del tuo personaggio poggia, come quella dei tuoi compagni di scena, su una performance molto fisica. Chiara si muove sempre, cerca qualcosa, è ossessionata da un telecomando che non trova, prende a pugni e a testate i propri fratelli...
Chiara si porta dietro una sua complessità e ha un rapporto con la felicità molto evidente, ha probabilmente meno freni e come gli altri è una figura irrisolta. Ha un modo di interagire molto infantile e a volte anche fisico, un po' come quando ci si scazzottava da piccoli, le sue ossessioni raccontano il bisogno di estraniarsi e di non stare esattamente in quel posto. Ho sempre avuto la sensazione che fosse fortemente ancorata alla propria infanzia, e che sia legata più dei suoi fratelli a quella parte della vita in cui probabilmente sentiva di aver trovato il posto giusto, che ora invece non riesce più a identificare.
Che cosa hai regalato in più alla Chiara cinematografica?
Forse quei momenti irripetibili con cui il cinema riesce a rappresentare qualcosa di più sottile, o le scene fuori dalla casa che nello spettacolo teatrale non c'erano e che raccontano il sentimento provato da Chiara quando non si mostra agli altri. Mi sono accorta che ha molti più aspetti di quelli che pensavo avesse e che erano già tanti. È la magia del cinema, che rende visibile tutte le piccole cose che a teatro possono sfuggire.
Possiamo definire il film una storia sulla persistenza, sul recupero dei ricordi e di ciò che rimane oltre il tempo?
Il concetto del trapasso e della rinascita evocato dalla favola dei Navajo, nata dalla penna di Francesco, accomuna tanti mondi e religioni. In tutto il film aleggia l'idea che le cose ci sopravvivano e che al di là di noi riescano a raccontare un vissuto; la persistenza fa parte della nostra vita, le cose ci accompagnano e poi ci lasciano andare mentre loro restano. La sensazione è che attraverso un oggetto o delle foto rimanga nell'aria una risata, un istante, un ricordo.
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Veniamo da un anno che ci ha lasciato e ci lascerà delle ferite profonde. I teatri e i cinema ormai sono chiusi da un anno e mezzo. La politica ha fatto abbastanza per il settore?
Abbiamo assistito a una tragedia alla quale nessuno avrebbe mai potuto pensare in maniera realistica, è stato qualcosa di straordinario e imprevedibile. Ma credo anche che l'emergenza abbia messo in luce tutta una serie di problematiche del mondo della cultura in Italia, sicuramente preesistenti. Le categorie più fragili come la scuola, la sanità e la cultura hanno sofferto e probabilmente soffriranno molto più di altre rispetto alla ripartenza, perché venivano già da una situazione di incuria. Mi spiace pensare che la cultura non sia un terreno abbastanza dignitoso per la politica sul quale investire, come fanno nel resto dei paesi europei, dove la cultura è un valore. Si è cercato di mettere delle toppe senza riuscire a salvare tutti, come ad esempio i piccoli teatri con cui noi lavoriamo spesso e che non hanno potuto neanche approfittare di quella piccola bolla di riapertura che c'è stata per un breve periodo; per loro le condizioni per riaprire erano impossibili da gestire. L'augurio è che possa esserci una rinascita e un ripensamento del sistema. Sono ottimista e credo che la gente più o meno consapevolmente ritornerà alla ritualità dell'andare al cinema o a teatro, perché l'uomo è un animale sociale e l'arte è una forma di bellezza di cui non possiamo fare a meno.