Pupi Avati porta sul grande schermo la storia di un'amicizia a ritmo di jazz, l'incontro tra due appassionati di musica destinati a contendersi gloria e donne. Prodotto da suo fratello Antonio e dai Rai Cinema, il regista bolognese presenta alla Casa del Cinema di Roma il suo trentaquattresimo film, accompagnato dall'intero giovanissimo cast.
Perché ha scelto questo titolo? Pupi Avati: Il titolo di questo film è quello più bello tra tutti i trentaquattro film che ho fatto. E' un titolo che mi piacerebbe dare a tutti i film che farò d'ora in avanti perché è una frase che mi commuove profondamente, perché evoca un momento della vita ben preciso, quello in cui le ragazze arrivano d'improvviso, finché ad un certo punto smettono di arrivare e nemmeno te ne accorgi.
Quanto c'è di autobiografico in questo film? Pupi Avati: Il mio è un film fortemente autobiografico, una storia nella quale c'è una parte di invenzione limitatissima. Non ho pensato di spettacolarizzare quasi nulla, ma semplicemente di andare appresso alla realtà delle cose, al rammarico e alla gioia. E' un film al quale sono particolarmente affezionato perché si occupa di me, della mia vicenda personale, umana, ma anche incidentalmente artistica. Mi riconosco totalmente nel personaggio di Gianca, interpretato da Paolo Briguglia. E' una storia vista dal soccombente, da colui che vede il talento esplodere, crescere e volare via. Gran parte delle storie che ho raccontato nei miei film hanno lo stesso punto di vista, quello cioè di chi cerca di farcela nella vita, di raggiungere la felicità senza mai riuscirci. Il film si occupa di un tema che mi è caro, la differenza fra la passione e il talento, un tema del quale non si è mai occupato nessuno e che è invece un problema assolutamente centrale nella formazione di un individuo. Fra passione e talento c'è una differenza fondamentale: non è sufficiente sognare, immaginare, innamorarsi, caparbiamente perseguire una professione, un'attività, per riuscire in qualche modo a dire agli altri chi si è attraverso questo strumento. Il talento è qualcosa di assolutamente diverso, è quella cosa per la quale improvvisamente Nick, una notte in un pub di Bologna, dopo aver eseguito due giri di un brano in modo molto modesto, comincia improvvisamente ad azzeccare una serie di frasi straordinarie ed emozionanti. Il talento scende su di lui come uno Spirito Santo. Sono convinto che in ognuno di noi ci sia del talento, che ognuno di noi rappresenti un'eccezione del sistema, che ognuno di noi sia il prescelto, ma il problema è cercarsi, non esaurire mai la propria ricerca.
Chi è stato il suo Nick? Pupi Avati: Sono stati più d'uno. Ho suonato di fianco a grandissimi musicisti in tutti i club d'Europa e ogni sera che ci esibivamo capivo dagli sguardi degli spettatori che ero il peggiore, mentre c'erano altre persone che suonavano straordinariamente bene.
Ha detto che questo è il suo film più autobiografico. Perché allora non ha lasciato la vicenda negli anni Cinquanta e l'ha trasferita negli anni Novanta? Pupi Avati: Perché in passato ho già fatto un uso abbondante di ambientazioni retrodatate e poi ho verificato, soprattutto attraverso la frequentazione dei miei figli trentenni, che queste storie, questi sentimenti, queste opportunità per essere felici o infelici sono assolutamente le stesse, ieri come oggi. Le cose che fanno loro si potevano fare negli anni Cinquanta, negli anni Trenta e si potranno ancora fare tra quaranta anni. Mi sembrava che un racconto ambientato nell'oggi, piuttosto che nella mia epoca, diventasse più universale, più condivisibile, e poi mi piaceva parlare del jazz moderno, della musica di oggi, entrare in un contesto nel quale non ero mai entrato.
Perché il richiamo alle stelle? Pupi Avati: Questo piccolo intreccio borghese, molto quotidiano, comune, in cui tutti più o meno si identificano, aveva la necessità di essere contestualizzato in qualcosa di molto più grande che lo prescinde ed io ho scelto questo cielo sterminato, questi milioni di chilometri di code di astri misteriosissimi che vanno, vengono e spariscono. Mi sembra che la convivenza di queste due vicende, quella delle comete e quella della gelosia di Gianca per Nick, facesse in modo che questa storia diventasse più universale; inoltre mi sembrava bello fare della parola "ragazze" sinonimo della parla "cometa", poiché evocano più o meno lo stesso struggimento, la stessa luce.
Aveva già affrontato la questione del talento in suo vecchio film, Noi tre, ma qui la approfondisce in maniera più completa. Quanto la preoccupava rendere dal punto di vista cinematografico questa manifestazione del talento? Pupi Avati: Il problema del talento nel film su Mozart era un un po' diverso, nel senso che lì raccontavo il talento come diversità assoluta, come incapacità di convivenza col normale: il giovane Mozart cercava di sfuggire al suo talento, lo sentiva come una sorta di condanna che lo avrebbe trascinato lontano dalla normalità, dalle storie d'amore con le ragazze, dalle amicizie. La sua vita è stata una vita straordinaria, ma anche di diversità e di sofferenza. Il suo è un caso straordinario, qualcosa che va oltre il talento, in quel territorio misterioso che è la genialità. Nel mio nuovo film invece si parla di un talento musicale vero, autentico e credo che quella esibizione di cui parlavo prima racconti bene quello che ho vissuto io. E' evidente che questo è un condensato, mentre quello che ho vissuto io si è protratto per settimane, mesi. Ho visto di fianco a me persone crescere tantissimo nell'arco di un breve tempo, persone sulle quali non avresti scommesso nulla e poi improvvisamente sono state visitate da questa cosa misteriosa che ha rivelato il loro talento.
Quando sente suonare al Teatro dell'Opera o al Campidoglio Woody Allen pensa che sia talento, passione o mancanza assoluta di pudore?
Pupi Avati: Talento zero, senza dubbio meno del mio. Se facessimo una jam session io e Woody Allen il peggiore sarebbe sicuramente lui. Allen fa dei bei film, ma suona male, anche se lo pagano un sacco di soldi quando viene a suonare qui. Lui ha il mio stesso problema: più suona più peggiora.
Perché Johnny Dorelli nella parte del padre di Gianca? Pupi Avati: Per una serie di ragioni. Innanzitutto per una nostalgia profonda mia e di mio fratello Antonio nei riguardi di una figura paterna della quale siamo stati privati quando lui aveva 3 anni e io 12 per un incidente stradale. Abbiamo avuto una madre straordinaria, che abbiamo più volte raccontato nei nostri film, ma ad una certa età viene voglia di confrontarsi con una figura maschile. Al di là di questo a Johnny devo la sopravvivenza alimentare ed economica di due anni della mia vita, quando era difficile lavorare e lui mi impose come regista di una serie di spot pubblicitari di una casa automobilistica della quale lui era testimonial. Io ero un pessimo regista di spot perché lo facevo solo per i soldi e quindi non avevo alcuna passione per questa cosa. Quando abbiamo scritto il film, il personaggio del padre mi ha fatto subito pensare a Dorelli e mi è parso fantastico chiamarlo perché lui è un attore con 18 anni di silenzio alle spalle, ma con una gran voglia di rimettersi in gioco. Quando ha letto il copione ha riconosciuto la figura di suo padre, un padre identico a quello di Gianca, che ha tifato per suo figlio, l'ha convinto a cantare e che ha avuto la terribile sorte di morire una settimana dopo la vittoria di Johnny a San Remo. E' stato molto bello lavorare con lui perché ha dato un senso di verità a questo personaggio.
Quanto è stato difficile portare un triangolo sullo schermo senza essere banali?
Vittoria Puccini: Nel film questo rapporto a tre porta dei sentimenti, delle emozioni in cui è molto facile identificarsi. Lei è gelosa del rapporto del proprio compagno con un altro ragazzo, e nel caso del film questa è un'amicizia molto morbosa, molto forte, dalla quale lei si sente esclusa. Il tradimento da parte del suo compagno non è consumato con un'altra donna, ma viene fatto per ritrovare un'amicizia che aveva perso, per trovare una vicinanza con un amico che era sparito da tempo. La vendetta di lei consumata con l'amico di lui è invece un modo per entrare all'interno di questa amicizia e rompere un rapporto dal quale lei si sente fondamentalmente esclusa. Tutto questo dal punto di vista di questa ragazza che in fondo non sa bene quello che realmente vuole, incapace di guardarsi dentro, di riconoscere di chi è veramente innamorata e di andare dentro a quello che vuole, mentre preferisce accettare dei compromessi.
Pupi Avati: Secondo me la cosa meno edificante che lei compie in questo percorso è trovare un alibi al suo adulterio perché in realtà non ci si vendica così, andando con una persona che ti piace terribilmente. Quello è un modo di strumentalizzare una situazione.
Com'è stato lavorare con un regista come Pupi Avati?
Paolo Braguglia: Quando abbiamo ricevuto la sceneggiatura all'inizio l'impatto è stato molto forte perché è un vero è proprio romanzo, pieno di descrizioni, di suggestioni, di atmosfere, di tante cose che molte volte nelle sceneggiature non ci sono, quindi hai forte l'impressione di entrare nel mondo di un autore. Io cercavo di cogliere la sua sensibilità rispetto a questo punto di vista sul mondo, sul talento. Tra i registi con cui ho lavorato Pupi è stato sicuramente quello più esigente, mi stava sempre addosso e pretendeva il massimo. E' stata una grandissima esperienza.
Claudio Santamaria: Anch'io ho avuto la stessa impressione di Paolo leggendo la sceneggiatura. Durante il primo incontro con Pupi ero molto diffidente, però poi è andata bene. Una cosa che di lui amo e odio è la sua dispoticità. Sul set ho dovuto lottare continuamente con la mia permalosità, ma le persone che in un processo creativo diventano più aggressive, dispotiche, mi affascinano perché significa che vogliono ottenere il meglio.