"Tutti qualche volta perdiamo un po' la testa... a voi non è mai capitato?
Guardando Psycho, intorno al minuto 25 veniamo messi di fronte a un dettaglio rivelatore. Marion Crane è alla guida della Ford Custom appena acquistata, diretta verso la cittadina californiana di Fairvale; Alfred Hitchcock costruisce la sequenza come una catena di primi piani della donna al volante, mentre la luce del giorno si affievolisce e delle voci fuori campo ci riportano la ricostruzione della scoperta del furto di quarantamila dollari. I primi piani si fanno sempre più ravvicinati e l'espressione di Marion sempre più angosciata, fin quando, immaginando le accuse pronunciate contro di lei, all'improvviso accade qualcosa di assolutamente inaspettato: Marion sorride.
Proprio così: per una ventina di secondi il volto di Janet Leigh rimane contratto in un sottile sogghigno, e nel suo sguardo lampeggia un bagliore sinistro. Nell'inquadratura successiva è ormai scesa la notte: il mondo intorno a lei non esiste più, si è trasformato in un'indistinta massa scura, spezzata solo dai fari delle altre auto che si rifrangono sul vetro del parabrezza. A livello narrativo questa scena non ha alcuna rilevanza, eppure costituisce una cesura emblematica: per la prima volta dall'inizio della pellicola, Marion si libera delle proprie insicurezze, dei timori di essere arrestata e del suo opprimente senso di colpa e sembra godere di quella nuova vita da criminale. Pochi istanti più tardi la donna si fermerà d'innanzi al Bates Motel, e da quel momento avrà inizio un film completamente diverso.
Alfred Hitchcock e la rifondazione dell'horror
Da questo punto di vista il sorriso di Marion Crane segna l'abbandono della razionalità, ma anche della realtà stessa, per entrare in una dimensione altra, notturna, separata dal resto del mondo; come separato dal resto del mondo è il Bates Motel, la cui duplice struttura emerge dalle tenebre come il castello di Manderley nel prologo di Rebecca, la prima moglie. Fino ad allora, Psycho aveva seguito a grandi linee la struttura di molti altri film di Alfred Hitchcock: una protagonista che si ritrova da sola, braccata da un incessante pericolo (benché, a differenza di quasi tutti gli altri eroi hitchcockiani, Marion non è innocente). Da lì in poi, invece, Hitchcock sperimenta qualcosa che non aveva mai fatto prima: tramuterà un canonico thriller hitchcockiano in un horror. Un horror che, nel 1960, non aveva eguali né antesignani, ma che al contrario avrebbe letteralmente fondato un genere.
Sull'importanza di Psycho come capostipite dell'horror psicologico (insieme al coevo L'occhio che uccide di Michael Powell, uscito con un paio di mesi d'anticipo) e del filone slasher sono stati scritti interi volumi; ma non è l'unico motivo per cui l'adattamento dell'omonimo romanzo di Robert Bloch rappresenta un unicum nella sterminata filmografia di Alfred Hitchcock. Il legame più immediato è forse con un altro suo capolavoro realizzato appena due anni prima, Vertigo - La donna che visse due volte, di cui Psycho recupera il senso di sospensione sulla soglia della follia. Nello specifico, ad accomunare Vertigo e Psycho è il modo in cui, in entrambi i film, Hitchcock gioca con quel sentimento definito da Sigmund Freud con il termine unheimliche e assimilabile al concetto di "perturbante".
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L'impero della mente di Norman Bates
Scriveva Freud nel 1919: "Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare". E in Psycho, quasi tutto ci appare familiare: dalla grigia routine di Marion, spezzata solo dai fugaci incontri con l'amante Sam Loomis, al brullo percorso dall'Arizona alla California, fino a quell'anonimo motel lungo un'appendice interrotta dell'autostrada. Ma il Bates Motel, con i quadri e gli oggetti d'arredamento che si richiamano alla mitologia classica e soprattutto gli uccelli impagliati che campeggiano sulle pareti, è il "regno del perturbante" per eccellenza: una sorta di uncanny valley in cui l'ordinarietà di un ambiente ben noto, increspata però da alcuni elementi dissonanti, finisce per generare un'inquietudine sommessa, incomprensibile e via via più soffocante.
Per ottenere tale effetto Hitchcock si prende tutto il tempo necessario, facendo precedere l'apoteosi di orrore della famigerata scena della doccia da una lunga sequenza esclusivamente dialogica: la cena di Marion e Norman Bates nella saletta del motel. La loro conversazione serve ad esplicitare il ripensamento di Marion, l'intenzione di rientrare nella normalità riparando al furto commesso, ma anche a delineare la figura di Norman e la sua ossessiva dipendenza dalla madre Norma. Una dipendenza che Hitchcock fa esprimere verbalmente a Norman, ma che nel frattempo rimarca con mezzi molteplici: l'onomastica (Norman non è che un prolungamento di Norma e rimanda ai concetti di "norma", regola, e di "normale"); la presenza di quella casa, sviluppata in senso verticale, che troneggia sulla struttura orizzontale del motel, con la finestra illuminata a fungere da occhio mostruoso; e poi, ovviamente, gli uccelli 'assiepati' attorno a Marion e Norman.
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L'occhio che uccide
Il dialogo fra Marion e Norman, una scena dalla natura sostanzialmente statica, viene reso invece, nelle mani di Hitchcock, come un magnifico saggio sul connubio fra parole e immagini. "Sapete cosa penso? Che ognuno di noi è stretto nella propria trappola. Avvinghiato. E nessuno riesce mai a liberarsene. E mordiamo, e graffiamo, ma solo l'aria, solo il nostro vicino. E con tutti i nostri sforzi, non ci spostiamo di un millimetro", osserva Norman, in cui Marion vede rispecchiata la sua stessa condizione di prigioniera, ingabbiata da circostanze avverse. Anthony Perkins, sul cui viso si alternano dolcezza, fragilità e rabbia repressa, è in un angolo della stanza, dominato da quei volatili imbalsamati, ma a un certo punto si sporge verso Marion, Hitchcock cambia prospettiva, ed ecco che si verifica un'altra minacciosa epifania.
La testa di Norman ora è al centro dell'immagine e il profilo di Anthony Perkins, con quello sguardo di colpo più sicuro e magnetico, si fonde con l'uccello rapace sul lato opposto della stanza, le cui maestose ali spiegate sembrano diventare un tutt'uno con il corpo di Norman. Si tratta di pochi secondi eppure, a livello subliminale, quell'inquadratura si deposita nella mente dello spettatore, si carica di valenze simboliche, anticipa un misterioso senso di pericolo. È ciò che rende Psycho un'opera così intimamente disturbante, perfino a decenni di distanza: il senso di pericolo permea ogni angolo del film e trapela da ambienti e situazioni che ci appaiono quotidiani, addirittura banali. Niente creature fantastiche, né intrighi internazionali: l'orrore, in Psycho, è nell'occhio che spia una ragazza seminuda dalla fessura di una parete, e che per un terribile momento - la soggettiva sulla camera di Marion - diventa il 'nostro' occhio.
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La signora Bates: l'orrore senza volto
Del resto Psycho, più di tutti gli altri lavori del regista, è un film sullo sguardo, imperniato sui cambiamenti di focalizzazione. Il primissimo piano sull'occhio sbarrato di Marion, che poi si allarga fino ad inquadrare il corpo senza vita della donna, è un macabro dettaglio che sancisce il repentino passaggio dal punto di vista di Marion a quello di Norman: sono già trascorsi quarantotto minuti, e con la morte di Marion ora lo spettatore è lasciato da solo insieme a Norman. Questo atipico giallo non ha più un 'eroe', qualcuno in grado di infondere sicurezza nel pubblico: ci proverà il detective Milton Arbogast, ma il suo ruolo di personaggio-focalizzatore durerà appena una manciata di minuti, prima di finire anch'egli vittima di una delle scene di omicidio più elettrizzanti mai concepite sullo schermo.
Se nell'assassinio di Arbogast si ripropongono le stesse componenti del delitto di Marion (le coltellate fulminee, i "violini urlanti" di Bernard Herrmann), stavolta però l'effetto perturbante è veicolato da Hitchcock attraverso un'inquadratura del tutto insolita: quella ripresa dall'alto che interrompe la salita delle scale del detective e ci offre un punto di vista 'impossibile' sull'arrivo del killer. La scena della doccia era costruita su un sistema di campi e controcampi, pur lasciando nell'ombra il volto e la sagoma della signora Bates. Qui, mentre Arbogast viene pugnalato a morte, la ripresa dall'alto ci conferma l'essenza fantasmatica di Norma Bates: uno spettro senza volto che si materializza dal nulla, restando parzialmente invisibile e di conseguenza inconoscibile, quasi metafisico. Come il mostro di un film horror, appunto, ma al contempo tremendamente reale.
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"Non farebbe male neppure ad una mosca..."
In questo aspetto risiede probabilmente gran parte dell'imperituro fascino di Psycho: si tratta della storia più angosciosa raccontata fino ad allora dal cinema americano entro un contesto realistico, svincolato dal soprannaturale e dalla fantascienza. Un contesto in cui l'orrore appare ancora più concreto e tangibile in quanto totalmente frutto della mente umana e incarnato nei tratti da bravo ragazzo del ventisettenne Anthony Perkins. E ciò nonostante, il film di Hitchcock mantiene comunque una vena surreale, con suggestioni da gotico americano, tale da riportarlo costantemente nei territori del perturbante: gli uccelli impagliati alle pareti; la palude che inghiottisce le vittime di Norman; la casa, luogo oscuro e proibito, nei cui sotterranei si cela un atroce segreto; e la signora Bates in persona, ridotta a un teschio ghignante.
Nel finale l'elemento della scienza e del raziocinio, impersonati dal dottor Richmond, parrebbe ristabilire l'ordine sul caos, come da convenzione del whodunit; e tuttavia, Alfred Hitchcock ci riserva un ultimo mutamento di prospettiva, riportandoci ancora una volta nei meandri della psiche di Norman. L'assassino è stato consegnato alla giustizia, ma il mostro dentro di lui è più vivo che mai e si gode il proprio trionfo. E i suoi complici, adesso, siamo noi: Norman alza gli occhi, rivolge alla cinepresa un terrificante sorriso e, per una frazione di secondo, al suo volto si sovrappone il teschio della madre. Un explicit di agghiacciante, insuperata perfezione.
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