Tutto nasce e muore nello spazio di un palco teatrale. Per chi vive di quella polvere sottile, depositatasi tra platee e backstage, l'anima si fa pagina e copione, la bocca fila di inchiostro, il corpo struttura architettonica di un teatro in rovina, mentre i ricordi battute da recuperare, raccogliere, inventare. E come sottolineeremo in questa recensione di Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett (presentato al 42.esimo Torino Film Festival e al cinema con Bim Distribuzione) anche un animo così rivoluzionario come quello del drammaturgo irlandese, per essere riscoperto ha bisogno di ritornare nello spazio angusto e nascosto di un sottotetto teatrale.
Lontano dagli applausi, dai premi (come quello Nobel di cui è insignito a inizio film) il suo passato riprende forma, sotto nuovi ricordi, nuovi corpi, tra romanticizzazione e riscoperta di un background personale soffocato dalla propria opera e imponente personalità fuori dagli schemi. Un ritorno al passato compiuto da James Marsh che nel suo film mette da parte il genio per recuperare l'uomo, le sue emozioni, i battiti di un cuore che ha scalpitato tra passioni e paure, al ritmo di battute da scrivere e bombe da cui scappare.
Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett: scrivere pericolosamente, dirigere tradizionalmente
"Dobbiamo scrivere pericolosamente": è molto di più di una semplice battuta quella lasciata scorrere nello spazio di un'inquadratura in Prima danza, poi pensa. Alla ricerca di Beckett; è un'esigenza, una necessità, che lo stesso Beckett ha saputo cogliere e concretizzare; già, perché l'autore di Giorni Felici ha saputo davvero scrivere pericolosamente, al di là delle regole e dei canoni di una letteratura satura e ancorata ai dettami di una tradizione che stava affogando e trattenendo, giovani ribelli in fibrillazione. Ma quella scrittura pericolosa, lontana da crismi imposti da accademici e tradizionalisti, perché viva di lasciti personale e spinte anarcoide, non è quella che traccia i contorni dell'opera di Marsh. Non c'è rivoluzione, non c'è insofferenza alle regole, ma una loro attenta riproposizione. E così, Prima danza, poi pensa diventa l'ultimo esemplare di una galleria biografica elegante, storicamente e privatamente interessante, ma poco adatta a restituire un'anima così inafferrabile e insensibile alle regole come quella di Beckett.
Aspettando Samuel Beckett
Non deve essere facile narrare una vita come quella di Samuel Beckett; un libro dell'esistenza, il suo, pronto a cambiare anima, natura, genere, allo scorrere di ogni capitolo o, ancora meglio, atto. James Marsh, coadiuvato dallo sceneggiatore Neil Forsyth, tenta di restituire il caos interno di una mente geniale dal passato altrettanto ribelle, facendo della propria opera un soliloquio tra un Beckett ancorato al presente e il suo doppio fantasmatico del passato. Un'odissea dantesca, dove l'Io si fa cantore di memorie pronte a ripresentarsi, come fantasmi dickensiani, in un bianco e nero da impressioni fotografiche ora messe in movimento.
L'ammirazione per Joyce, l'appartenenza alla resistenza francese, l'amore per la compagna Suzanne Dechevaux-Dumesnil e il suo tradimento, sono istantanee di un passato ripreso, rimodellato senza sfumature di grigi, ma colorate di una bicromia tra il nero del dolore e delle privazioni (soprattutto materne) e di un bianco della gloria e del successo. Reiterando un pattern già sfruttato nel precedente La Teoria del Tutto, Marsh preferisce il facile gioco della convenzione all'intuizione e all'estro ribelle dei propri geni; e così quegli elementi fondanti la poetica e lo stile di Beckett (così come le ricerche e le scoperte di Stephen Hawking) fanno inesorabilmente un passo indietro per lasciare spazio ad amori e rimedi personali.
L'intuizione viene pertanto sostituita alla concretezza di una storia canonica, senza guizzi, il cui unico spettro di quella mente fuori dal coro di Beckett è raccolto nell'esimo spazio di un titolo che 'recita' un verso di Aspettando Godot, lasciando presupporre, o immaginare, quello che il film avrebbe potuto essere e non è stato. Beckett non era interessato a raccontare storie, quanto a presentare situazioni e personaggi emblematici, che mostrassero l'assurdità, la mancanza di significato della realtà e il tragico destino dell'uomo circondato dal nulla. Eppure, il Beckett di Marsh, per quanto ammantato da desolazione e solitudine, vive di compiutezza e realtà; è fortemente caratterizzato da ogni cliché tipico del più tradizionale biopic, divenendo ultima creatura di una scrittura hollywoodiana adatta al gusto degli altri, e poco consona a se stessa.
La solitudine dei numeri primi
Prima danza, poi pensa è un film soprattuto di montaggi e parole; un tentativo di recuperare e raccordare attimi, momenti perduti tra gli spazi di copioni teatrali. La solitudine è il sentimento pregnante nell'opera e nella vita di Beckett. Un cordone ombelicale che alimenta lo stesso autore collegandolo al proprio nucleo. Il fiume di parole strascicate, eppure così cariche di emozioni e significati (e per questo lontane da quel sottosuolo emblematico e assurdo tipico di Beckett) disorienta lo spettatore* molto più di quello straniamento che ne caratterizza la propria opera letteraria e teatrale.
Certo, da canto suo Gabriel Byrne entra anima e corpo all'interno della psicologia del proprio personaggio, cogliendo appieno l'essenza di una parabola umana tracciata da una sceneggiatura fin troppo gelida e lineare, che lo spinge verso un'evoluzione incompiuta e incompleta. Colto al centro di riprese ampie, il protagonista si fa condottiero solitario alla riscoperta di un passato tenuto nascosto tra le fila polverose di un sottotetto mentale. E così, quell'ampiezza di inquadratura non è compiuta per avvolgerlo e affiancarlo a tutte quelle figure femminili che hanno segnato la propria crescita (soprattutto personale) quanto per esaltare il suo senso di individuo solo e solitario, riflesso perfetto delle proprie creature diegetiche.
"Il teatro deve stimolare lo spettatore all'azione" diceva Brecht, ma quello messo in scena da Marsh in Prima danza, poi pensa è un monologo da visionare in maniera passiva; una conoscenza di un passato non sempre conosciuto, segnato da amori sognati, voluti, traditi, da madri assenti e donne abbandonate; ogni figura femminile si fa pertanto segnalibro di un nuovo capitolo dell'esistenza che il regista non riesce a far sconfinare in quel campo della sorpresa, dell'impattante coinvolgimento emotivo che estrania, disorienta, ammalia. Il film di Marsh è dunque un film che pensa tanto, e danza poco.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Prima danza, poi pensa - alla ricerca di Beckett sottolineando come il film di James Marsh tenti di ridare al proprio spettatore tutti i crismi e gli elementi fondanti l'anima e il passato di un personaggio fuori dagli schemi come Samuel Beckett. Il problema è che il tradizionalismo di un'opera fortemente ancorata agli schemi del perfetto biopic non riesce a restituire la ribellione e l'eccentricità di un uomo come Beckett. Nonostante l'uso del bianco e nero e la messa in discussione del proprio passato attraverso il proprio doppio, tutto sa di già visto, già sentito, e poco di Samuel Beckett.
Perché ci piace
- La performance di Byrne nei panni di Beckett.
- L'uso del bianco e nero nel recupero dei ricordi.
- L'uso del doppio come ponte sul proprio passato.
Cosa non va
- Una certa aderenza ai canoni del cinema biografico classico che poco si adattano a un personaggio come Beckett.
- L'uso di dialoghi e di passaggi non così interessanti all'economia del racconto.
- Il poco spazio lasciato al genio.