Precari nel lavoro, precari nell'anima
Il cinema italiano proprio non resiste, a cadenze più o meno regolari deve mettersi a parlare di trentenni in crisi, di donne isteriche che, abbandonate da mariti fedifraghi e immaturi, non trovano di meglio da fare che sbraitare e frignare per riconquistare (o sarebbe meglio dire per vedersi restituire) a tutti i costi qualcosa di evidentemente sbagliato, giustamente perduto. Salvare un matrimonio bruciato, un amore che non c'è più, la sicurezza e l'abitudine di una vita insieme per sempre: sono davvero questi gli unici pensieri di una donna durante i giorni dell'abbandono? L'elaborazione del lutto amoroso è tema pericoloso, sempre a rischio eccessi e clichè, e sa fungere a meraviglia da discorso banalotto sulla fragilità dei rapporti, che si vorrebbero ma non si sanno sostenere, che si pretendono senza fermarsi a riflettere seriamente sulle proprie volontà e su quelle altrui. Dura è la vita di chi è mosso solo da istinto e sentimenti, e non sa prestare ascolto alla ragione, che eviterebbe bagni di ridicolo e fastidiosi strepitii.
Non si distingue certo per originalità questo Riprendimi, unico film italiano selezionato all'ultimo Sundance Film Festival di Robert Redford, un'opera low budget che tenta di colmare con le idee una mancanza di fondi che possa farla volare alto. Un progetto che regge e bene sotto il profilo tecnico, ma che incontra limiti gambizzanti in ciò che racconta. La storia infatti è quella di una giovane coppia di sposi, entrambi lavoratori precari giusto per agganciarsi a questi tempi difficili, che si lascia riprendere dall'occhio delle telecamere di due documentaristi interessati a testimoniare l'insicurezza economica del lavoro precario nel mondo dello spettacolo. Quando la coppia scoppia, perché lui decide di mollare lei e il loro figlioletto di appena un anno alla ricerca di nuovi stimoli e carne fresca, l'oggetto del documentario si sposta dalla precarietà del lavoro a quella dei sentimenti e sul supporto inevitabilmente digitale di quegli operatori onnipresenti, improvvisatisi angeli custodi, finiscono le tragiche e fracassone conseguenze dell'amore finito: urla, pianti, piatti rotti, scenate a non finire.
Poca roba quindi da rilevare sul piano del racconto. La precarietà è solo un pretesto per poter parlare della crisi profonda in cui è impantanato l'italiano: solitudini senza sollievo, rapporti effimeri pronti a spegnersi di fronte al primo miraggio di novità, dipendenze che tradiscono un'immaturità difficile da superare e che soffocano ogni possibilità di riuscita. Il lavoro non riesce più a nobilitare l'uomo, le relazioni con chi gli sta intorno sono fonte di ulteriore malessere, anche se alla fine un ritrovato senso di solidarietà aiuta a stare meglio. Di fronte alla transitorietà di qualunque aspetto della vita moderna (dall'amore al lavoro, agli amici) l'unica possibilità di degna sopravvivenza diventa allora l'egoismo, ma tenendo sempre la porta aperta al supporto di chi ci sta intorno e vuole concedercelo. Per il resto amori che vanno, amori che vengono, pugni nello stomaco da sopportare, piccoli momenti di felicità da scovare nelle pieghe di una vita normale.
A fronte di così poco da dire, il film di Anna Negri sa però farlo con grande intelligenza. Sotto il profilo tecnico ed artistico, Riprendimi è infatti un lavoro ineccepibile, con idee che nel panorama del nostro cinema si definiscono volentieri originali, anche se paragonate al cinema indie oltre confine perdono ogni sfumatura innovativa. La regista, cresciuta essenzialmente nella fiction, mescola insieme con grande sapienza documentario e cinema, ma non può sfuggire al sistema-reality, che spia la quotidianità del mondo privato delle persone, ne discute e ha addirittura il potere di manovrarlo e cambiarlo a proprio piacimento. Costato appena 700.000 euro, il film abbatte la scarsità di disponibilità stringendo il campo su numerosi primi piani e su quegli interni così comuni che sembrano sottolineare continuamente il tentativo di parlare di vita vera. Riprendimi è perciò un'opera che manca di coraggio, ma che, tappandosi le orecchie di tanto in tanto, si lascia guardare con piacere, grazie anche alla vivacità del montaggio della prodigiosa Ilaria Fraioli di Vogliamo anche le rose, alle splendide musiche, tra jazz e morbide atmosfere, di Dominik Scherrer, e al lavoro davvero encomiabile, di scuola Cassavetes, degli attori, Alba Rohrwacher in primis.