E' qualcosa di più di una semplice commedia surreale, Pollo alle prugne, più di un divertissement fantasioso e coloratissimo che strizza l'occhio a esempi di cinema francese come il mai dimenticato Il favoloso mondo di Amelie. Il film di Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud, tratto da una graphic novel della stessa Satrapi, è una favola amara e malinconica che si prende il suo tempo per rivelare allo spettatore la sua vera natura; il film segue intelligentemente la trasformazione, agli occhi dello spettatore, del suo protagonista, uno straordinario Mathieu Amalric; rivelandosi gradualmente come un'opera impregnata di una profonda tristezza, persino nichilista nelle sue implicazioni, ma capace nel raro intento di commuovere e scaldare il cuore nonostante l'apparente assenza di speranza che la caratterizza, la sostanziale resa del suo protagonista a un destino cinico e beffardo al quale non c'è modo di opporsi.
Proprio di questo film, che segna il passaggio al cinema live action dei due registi dopo il precedente (e apprezzatissimo) Persepolis, abbiamo parlato con gli stessi Satrapi e Paronnaud, in una conversazione stimolante e ricca di spunti di riflessione.
Come vi siete divisi i compiti sul set?
Vincent Paronnaud: Abbiamo lavorato molto insieme nei due anni precedenti l'inizio delle riprese, quindi avevamo una visione generale comune; dopodiché ci siamo divisi i compiti. Sicuramente Marjane ha lavorato di più con gli attori, visto che lei ci è più portata anche caratterialmente, mentre io mi sono occupato di più della macchina da presa e della messa in scena. Tra l'altro il film è ambientato in Iraq, quindi per gli attori era più facile rivolgersi a lei: sicuramente hanno avuto più contatti con lei che con me.
Marjane Satrapi: Noi avevamo molta voglia di fare una cosa nuova. Sicuramente l'approccio è stato molto diverso: quando si realizza un film di animazione si ha il controllo totale su tutto, da alla A alla Z, e inoltre si lavora su tempi molto più lunghi; si può rivedere, modificare e cancellare tutto ciò che è stato fatto, fino all'ultimo momento. In questo film invece avevamo solo 46 giorni di riprese, non uno di più; il budget, inoltre, era quello che era, e quindi non ci saremmo potuti permettere di dire "abbiamo bisogno di altri 10 giorni". Essendo tra l'altro un film a incastro, in cui ogni scena conta, abbiamo dovuto fare in modo di girare, in quel poco tempo, tutto ciò che volevamo: questo ha comportato una notevole dose di stress, ma è stato anche elettrizzante. La lavorazione di un film è sempre un'esperienza molto intensa, che comporta emozioni forti, visto che si lavora e si vive tutti insieme; il tutto è stato comunque basato su un grandissimo lavoro nelle fasi precedenti alle riprese.
Si può dire che il film fonda ed amalgami i linguaggi del fumetto, del cinema e dell'animazione? Vincent Paronnaud: Avremmo potuto anche mischiarne 20, di linguaggi, visto che per noi si trattava di un film totalmente libero: era il nostro primo film, quindi ci siamo permessi di fare tante cose, cose che magari altri non fanno. Cambiare registro è anche pericoloso; magari sarebbe stato più semplice usare un solo linguaggio e fare un film più coeso, ma la difficoltà per noi ha rappresentato il lato più elettrizzante del lavoro. Ad esempio, la scena che mostra il figlio adulto che vive negli Stati Uniti è caratterizzata da un umorismo un po' cheap, che poteva rischiare di scadere in un registro che non c'entrava nulla col film. Abbiamo corso dei rischi, sì, ma a noi piace sperimentare, tentare di fare cose diverse; è questo che ci ha motivati.
La musica è uno dei protagonisti del film, con la progressione della storia il suo ruolo diventa sempre più centrale. Nel finale, di fatto, sostituisce completamente i dialoghi. E' stata una scelta cosciente?
Avevate un qualche modello cinematografico in mente, mentre giravate? Marjane Satrapi: Più che un singolo riferimento cinematografico, ce ne sono stati tanti: noi siamo dei cinefili, e quindi guardiamo tantissimo cinema. Sicuramente, ciò che non volevamo fare era un semplice collage, un copia e incolla di scene già viste in altri film; ci sono comunque i registi che abbiamo sempre amato, da Ernst Lubitsch a Douglas Sirk e Orson Welles; e c'è anche una sit-com americana intitolata Madame est servie (in Italia Casalingo Superpiù, ndr), una cosa tremenda, talmente brutta che abbiamo detto "mettiamoci anche questa!". In una scena, poi, abbiamo inserito una citazione del quadro La morte di Socrate di Jacques-Louis David, ricostruendo nel film la stessa sequenza del quadro; tantissimi riferimenti, quindi, cinematografici e non solo, che abbiamo preso in maniera cosciente, digerendoli e amalgamandoli in quello che è il nostro linguaggio.
La scelta di Mathieu Amalric come protagonista si è rivelata particolarmente felice. Com'è nata questa collaborazione? Marjane Satrapi: Mathieu è stata la nostra prima, seconda, terza e decima scelta: se avesse detto di no, non avremmo proprio saputo come fare, visto che era lui che volevamo per il ruolo di protagonista. Tra l'altro, quello era un momento in cui lui aveva deciso di non lavorare più come attore, visto che era appena passato dietro la macchina da presa: tuttavia, l'abbiamo contattato e lui ha accettato subito. E' presente nell'85% delle scene, e si può dire che porti tutto il film sulle sue spalle; tuttavia, pur essendo ormai anche un regista, non ha mai cercato di intromettersi nelle nostre scelte, anzi il primo giorno di riprese mi ha detto "io sono come un soldatino, faccio tutto ciò che mi dite di fare, se c'è da ripetere una scena 100 volte la ripeto". Si è messo totalmente al servizio del film, quindi, ma si è dimostrato soprattutto un essere umano straordinario: è stato un protagonista perfetto, ha avuto l'intensità, la drammaticità, la follia e l'umanità per interpretare questo personaggio. Di lui posso dire solo che è tanto bravo come attore, quanto meraviglioso come persona: davvero un essere umano speciale.Con che tipo di sentimenti vi aspettate che lo spettatore esca da un film del genere, così toccante ma anche intimamente pessimista? Vincent Paronnaud: Alla fine non c'è un messaggio definitivo, dal film non si "impara" nulla di preciso: è un film che apre tantissime porte senza chiuderle. In questo, ci dà l'idea che il mondo è un luogo complesso, e ci mostra questa complessità senza offrire risposte definitive: proprio per questo, posso dire che è un film politico.