Dopo tanta attesa, il Pinocchio di Guillermo del Toro è finalmente disponibile in streaming su Netflix. Si tratta del secondo adattamento dedicato al romanzo di Carlo Collodi uscito nel 2022 (il terzo degli ultimi tre anni se consideriamo anche quello di Matteo Garrone), eppure questa nuova trasposizione in stop motion è quello che né il live action Disney di Robert Zemeckis né tanto meno il film del regista di Dogman hanno avuto il coraggio di fare. La visione del cineasta messicano è infatti benedetta da una profonda rilettura concettuale del testo originale, dotato di un carattere cinematografico e personale finora inedito a tutti i lungometraggi o le serie televisive basate sulle Avventure di Pinocchio.
È un vero e proprio ribaltamento artistico ed educativo del racconto che resta però fedele ai passaggi fondamentali della storia, ripensata in un'epoca differente e in uno stile mai adottato prima per raccontarla, entrambi connessi alle fondamenta stesse della logica "comando e azione". Quello che ne esce è il Pinocchio migliore mai visto tra grande e piccolo schermo, un miracolo che attualizza e stravolge ma al contempo rispetta e universalizza una "favola umoristica" che aveva disperato bisogno di un trattamento differente e a tratti spregiudicato, tanto da capovolgere le idee più cristallizzate che abbiamo del mondo, della vita e della morte raccontate mediante Pinocchio.
La lezione di Collodi
Nella prima stesura del finale originale pensato da Collodi per il suo Pinocchio, il burattino veniva impiccato dal Gatto e dalla Volpe. Drammatico e cruento, senza lieto fine, a rispecchiare la drammaticità della vita stessa. Insorsero però i giovani lettori del quotidiano Fanfulla, che contro ogni aspettativa d'autore ed editore si erano affezionati a "quella bambinata" - come la definì Collodi stesso -, costringendo quest'ultimo a renderla più pedagogica, volta alla formazione dei più piccoli, oscura sì ma con un raggio di sole ben visibile a condurre Pinocchio verso un'uscita piuttosto felice. Ma all'inizio c'era la morte, e al netto di questo possiamo anche dire che il nuovo e straordinario, di cui vi abbiamo parlato nella recensione del Pinocchio di Guillermo del Toro torni quasi alle radici del malessere che Collodi covava per un mondo non propriamente umano, dove i pericoli erano sempre dietro l'angolo e bisognava saper riconoscere alla perfezione amici e nemici.
Era l'800 e la vita non era semplice, ma anche grazie alle avventure del burattino di legno divenuto bambino vero trapelò un messaggio di speranza e metaforicamente adatto a crescere gli adulti di domani. Era per questo votato a insegnare soprattutto obbedienza e rispetto, adeguandosi all'omologazione sociale dell'epoca e a dei principi tipici di un periodo più severo, chiuso, respingente e bigotto. Volenti o nolenti, Pinocchio era specchio del periodo che raccontava, figlio dell'estro satirico di un giornalista umoristico che volle trasformare la vita in allegoria, l'infanzia in qualcosa di simbolico tra il tetro e il fantasioso, ai limiti di un conturbante eppure angosciante realismo magico letterario.
Tra tante assurdità e disavventure, la lezione era semplice: per i più piccoli quella di ascoltare e rispettare le direttive dei più grandi, rigare dritto, studiare tanto o lavorare sodo; per i più grandi di proteggere i propri figli da un mondo ostile e crudele, crescerli consapevoli così da non essere divorati dallo stesso. Insomma, ai bambini a non essere asini e bugiardi, agli adulti a sperare in un futuro migliore, il tutto mediante un linguaggio schietto e popolare e un uso persistente del contrappasso. Un testo così brillante dedicato alla formazione e ai pericoli della società trascritti ed elaborati sotto forma di favola toscana che nessuno, dal cinema muto all'animazione Disney o di Cenci, da Comenicini a Benigni e fino ad arrivare a Garrone, ha mai avuto l'ardire o l'eroismo di mettere in discussione o ammodernare, ri-elaborandone con riguardo i concetti cardine per avvicinarlo di conseguenza a un'epoca più liberale, aperta e permissiva. Tutti, tranne Del Toro.
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La lezione di Del Toro
Il regista messicano parte direttamente dalla morte, che è forse l'elemento che più di altri ci rende umani. Fa di Geppetto un genitore disperato per la prematura scomparsa del figlio, Carlo (un omaggio a Collodi), legando per altro la dipartita del piccolo alla guerra, che non guarda in faccia nessuno, né bambini né religione, colpendo tutto indistintamente. Il Pinocchio di Del Toro è infatti ambientato durante il ventennio Fascista in Italia, con Benito Mussolini al potere e un'Italia grigia e tormentata (il Paese dei Balocchi è un campo d'addestramento per ragazzi), ferita dalla Grande Guerra e sotto regime totalitario. La location ha seminale significato, perché rappresenta una delle epoche più buie del paese dove le libertà erano sospese a favore dell'instaurazione di un'identità nazionale forzosa imposta da un solo burattinaio a tutti i suoi burattini, sia piccoli - con la gioventù Balilla -, sia di partito, sia cittadini purtroppo costretti ad obbedire in silenzio ai Podestà.
Tutti o quasi gli Italiani erano controllati nel Ventennio, e Del Toro rende fiero e libero l'unico personaggio burattino di natura. Nelle Avventure di Collodi la disobbedienza era vista e descritta come un atteggiamento negativo da modificare così da "divenire un bambino vero", cioè disciplinato, studioso o lavoratore, interessato al benessere dei genitori. Il regista messicano sconvolge tale lettura e, da amante dei ribelli e dei mostri (a cui ha sempre tentato di donare quella dignità e quell'umanità a lungo sottrattegli del cinema), scrive e dirige un commovente e magnifico inno alla disobbedienza stessa, che è poi passo fondamentale verso il contraddittorio, l'accettazione del diverso e la piena consapevolezza e attestazione del propria identità personale.
Il Pinocchio di Del Toro nasce dal dolore di un padre per la morte del figlio, che in preda alla rabbia (anche contro Dio, non scontato) e ai fumi dell'alcool intaglia il pino nato dalla pigna sotterrata insieme al corpo di Carlo. Geppetto diceva: "Quando una vita finisce, un'altra deve crescere", ma per farlo deve nascere da qualcosa di perfetto e integro, "con tutte le bratee". E Carlo era perfetto proprio come la pigna sepolta con lui, così da rendere Pinocchio altrettanto perfetto così com'è. Geppetto non riesce a capirlo immediatamente e tenta di renderlo altrettanto obbediente e buono come Carlo, vedendolo più come un'imitazione di legno del figlio scomparso che un altro bambino, un'altra occasione di essere padre e felice. Ma quello che fa e dà Pinocchio è "il suo meglio, e il suo meglio è il meglio che c'è", senza guardare a una perfezione codificata, a ciò che fanno gli altri. Glielo insegna un Grillo Parlante che diviene a sua volta cuore e coscienza reale e non eterizzata in un costrutto inarrivabile e fantasioso. Pinocchio è così perfetto da essere addirittura immortale e consapevole, tanto da maltrattare il Duce (che chiama addirittura Sua Escremenza) e non temere le conseguenze delle sue azioni.
Questo assume ancora più significato quando, rinunciando alla sua immortalità, decide di sacrificarsi allo stesso modo per salvare Geppetto, sempre consapevole e senza paura. Disobbedisce al padre, disobbedisce alla società, disobbedisce alle leggi ancestrali della natura. E ogni trasgressione lo rende sempre di più lui e sempre di meno gli altri, avvicinandolo un passo dopo l'altro alla scelta della morte come fattore più umano di tutti, quello che rende in effetti la vita unica e importante. Perché anche l'esistenza più perfetta è destinata a finire, ma è in effetti il modo in cui è esistita e per chi è esistita a dargli significato. Ciò che accade, accade, infatti. E in un attimo, non ci siamo più.
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