Un artista poliedrico, eccentrico e affascinato dai processi creativi dell'arte, ma anche filmaker noto ai più per aver vinto un Oscar alla migliore sceneggiatura originale per Se mi lasci ti cancello scritto insieme a Charlie Kaufman e Michel Gondry. Pierre Bismuth ha fatto dell'arte un territorio di sperimentazione continua e alla Festa del Cinema di Roma 2018 presenta il suo film da regista Where Is Rocky II?, un lungometraggio che lui stesso definisce 'fake fiction', per metà documentario e per metà fiction. Una storia nata dall'ossessione di Bismuth per l'opera misteriosa di Ed Ruscha, una roccia di resina che l'artista americano fece costruire e poi nascondere negli anni '70 in un angolo remoto del deserto del Mojave in California. La ricerca di quella roccia, ribattezzata Rocky II, diventa così il soggetto di un racconto metacinematografico che gioca con registri diversi e porta lo spettatore a camminare sulla sottile linea di confine tra realtà e finzione.
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Debutto alla regia tra finzione e realtà
Cosa c'è alle origini di Where Is Rocky II?
C'è innanzitutto il mio desiderio di fare un film basato su persone reali: perché inventare una storia quando ce ne sono una marea tra le quali poter andare a scegliere? Così anni dopo ho scoperto per caso dell'esistenza di questa opera di Ed Ruscha, una roccia finta abbandonata nel deserto del Mojave in California negli anni '70 e ho pensato che fosse l'ideale per realizzarci un film. Non credevo che ci sarei mai riuscito; all'inizio volevo solo creare un piccolo trailer da presentare a un produttore. L'idea era quella di realizzare qualcosa che non fosse basato su una sceneggiatura, ma sulla produzione per dimostrare che quando si cambia metodologia si finisce per avere un oggetto completamente diverso. Non ho mai chiesto di rigirare i dialoghi in nessuna scena: quella in cui do l'incarico al detective ad esempio, è esattamente così come l'abbiamo girata la prima volta, perché volevo che le immagini rappresentassero la sorpresa di quando viene ingaggiato.
Che pubblico aveva immaginato?
Non avevo assolutamente un pubblico in mente, volevo solo realizzare un film di intrattenimento. Non avevo la minima idea di dove dovessimo andare, l'idea era creare un protocollo e seguirlo alla cieca, ma non sapevo cosa ne sarebbe venuto fuori. Volevo realizzare qualcosa dove non ci fosse nulla di scritto o preordinato, arrivando alla fine del film facendo finta che invece lo avessimo progettato. Oggi vedo questo film tendenzialmente come una commedia.
Il suo rapporto con il cinema?
Non ho mai partecipato profondamente al mondo del cinema, ma della mia generazione sono quello che meno di tutti quanti gli altri ha provato interesse nei confronti di questo mezzo. Mi sono ritrovato a usarlo in maniera quasi accidentale, da ragazzo guardavo molta più tv di quanto non leggessi. Non c'è una ragione profonda per cui ho iniziato a fare film; il motivo fondamentale è che avendo vinto un Oscar, anche lì per caso, mi sono detto: "Non voglio morire senza aver tentato di realizzare qualcosa nel mondo del cinema". Intendo continuare e ne sto già preparando un altro.
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L'arte dell'improvvisazione
E il finale? Lo avevate già deciso all'inizio delle riprese?
Il film si è evoluto strada facendo. I finali sono quattro, perché ci sono quattro storie: la prima è quella del detective Jim Ganzer, che ha accettato subito di partecipare. Gli ho consigliato di improvvisare, non ho preso grosse decisioni, ma ho lasciato che il film si sviluppasse e crescesse da solo. La seconda storia è quella degli sceneggiatori, il terzo finale è la prima scena della fiction, e il quarto è il trailer di un film che non esiste.
Quanto è stato scritto prima e quanto invece è frutto di improvvisazione?
Non c'è stata nessuna sceneggiatura, nulla di scritto, scrivevamo in base alle scene girate il giorno prima. Non avendone mai fatto prima non avevo la minima idea di come si realizzasse un film, non sapevo né quante scene ci fossero né quanto dovessero durare, prima delle riprese avevamo solo la struttura di un trailer classico e non sapevamo neanche se l'avremmo utilizzata. Dopo le riprese giornaliere guardavamo la scena e decidevamo dove collocarla, abbiamo costruito il film giorno dopo giorno. La cosa più divertente erano i dialoghi: avevo un numero sufficiente di camere che mi permettevano di non doverli rigirare, potevo filmare tutto con un unico ciak, anche se poi mi ritrovavo a dover condensare sessanta minuti di dialogo in tre o quattro minuti. Volevo che la storia cominciasse con il detective che inizia la sua ricerca e con i due sceneggiatori che cercavano di raggiungere lo stesso obiettivo. Mi piaceva mostrare gli sceneggiatori a lavoro, non mi piaceva l'idea di avere un unico sceneggiatore seduto al PC a scrivere, volevo che ci fosse un confronto e un dialogo continui. Per il ruolo di secondo sceneggiatore avevo contattato Mike White, ma non poteva restare per tutta la durata del film, poi mi resi conto di aver bisogno di un elemento di disturbo nel lavoro dei due sceneggiatori e chiesi a lui di farlo; ha accettato ed è stato divertentissimo, è stato tutto improvvisato e creato da lui, è un genio, è fissato con le canzoni francesi ed è il motivo per cui durante una scena del film canta in francese, è straordinario.
Anche la musica ha un ruolo fondamentale...
Costituisce l'aspetto più importante in un film perché dà un'idea di finzione e di regia. Ho conosciuto un compositore svizzero che vive in Belgio e con lui ci abbiamo lavorato per un mese. Suono il basso e così ogni mattina ci incontravamo per discutere e capire come lavorare; mi piace tantissimo scrivere musica per il cinema.
Ed Ruscha ha visto il film?
Sì, lo ha visto e gli è piaciuto. Sapeva del film, ne era stato informato ed era molto ansioso, ma non ha voluto avere nulla a che fare con noi, né io con lui perché avevo bisogno che il film fosse il più veritiero e realistico possibile.