Piccolo certo, ma fiero assai
Quella di Seabiscuit - cavallo troppo piccolo per le competizioni, montato da un fantino troppo alto (e cieco di un occhio) - è una storia di sport, ma è anche un suggestivo spaccato d'America: questa è la forza della sua leggenda, ma non è certamente la forza del film che Gary Ross ne ha tratto. I momenti in cui gli eventi di quegli anni si affacciano sulla narrazione - con tanto di narratore esterno e foto d'epoca - sono tra i più deboli del film e ne rendono alcune fasi un po' indigeste, oltre ad aggiungere enfasi alle gesta del cavallino, che certamente non ne avevano bisogno. Neanche fosse stato Seabiscuit a varare il New Deal che pose fine ai tempi duri della Depressione, e non Franklin Delano Roosevelt.
La storia di questo mito a quattro zampe, di un cavallo da corsa che passa, con moto inverso rispetto all'adagio popolare, "dalle stalle alle stelle" - senza dubbio funziona: ma prima di fare entrare in scena Seabiscuit, il film ci presenta i tre uomini che hanno dato l'anima per il suo trionfo.
Charles Howard, il proprietario di Biscuit, è un uomo giunto in California a cercar fortuna e a vendere biciclette, e diventato milionario grazie al commercio delle auto. Incarna un'era di promesse, è un uomo positivo e solare, la cui fiducia si sbriciola nella tragedia della morte dell'unico figlio. Ross, con una certa destrezza, gli oppone Tom Smith, il solitario cowboy che viene dalle pianure del Mid-West, e il silenzioso rito con cui doma un cavallo imbizzarrito. Sarà lui l'allenatore del nostro cavallino.
In sella a Seabiscuit, un giovane fantino cui la vita ha riservato solo sconfitte: Johnny "Red" Pollard, abbandonato adolescente dalla famiglia rovinata dalla crisi del '29, vive di incontri di pugilato clandestini e di miseri impieghi da stalliere, pur di stare vicino ai cavalli, che sono la sua passione.
Questi tre uomini, per un felice gioco della sorte, finiscono per darsi un'altra chance l'un l'altro, e per darla a Seabiscuit, un metro e mezzo di cavallino ritenuto, prima di allora, pigro e senza nerbo, e per questo allenato a fare il perdente.
Da queste premesse, la vicenda si dipana come ci si potrebbe aspettare da una di queste storie di sentimenti positivi che Hollywood ama tanto raccontare: il cavallino proletario fa mordere la polvere anche ai destrieri più snob, per poi rischiare di ricadere anzitempo nell'oblio insieme al suo fantino e risollevarsi come la fenice dalle sue ceneri, grazie alla miracolosa intesa uomo-animale e grazie al coraggio e alla lealtà dei suoi patroni. Nessuna sorpresa, quindi, ma emozioni genuine e ben orchestrate dalla regia elegante di Gary Ross e grazie alle interpretazioni degli attori, tutti bravissimi. I ritratti di Howard e Smith sono all'altezza del prestigio degli interpreti cui sono stati affidati, Jeff Bridges e Chris Cooper; sorprende invece Tobey Maguire nel ruolo di Red, disarmante e tenero in versione fulva, altro che "Rosso Malpelo".
Per essere la storia dell'ennesimo eroe d'America, insomma, Seabiscuit - Un mito senza tempo può definirsi riuscito: come il caro cavallino, zoppica un po', ma ha un cuore grande.
Movieplayer.it
3.0/5