È una chiusura del cerchio, l'operazione che François Ozon porta avanti con il film di cui si parla in questa recensione di Peter von Kant: presentato in apertura e in concorso alla Berlinale 2022, edizione che segna il ritorno del festival teutonico alle date solite dopo la modalità ibrida che la pandemia ha imposto nel 2021, il nuovo lungometraggio del cineasta francese guarda a un duplice passato. Da un lato, il prototipo che Rainer Werner Fassbinder firmò cinquant'anni addietro, anch'esso in concorso a Berlino che allora spegneva "solo" 22 candeline; dall'altro, il rapporto dello stesso Ozon con la kermesse tedesca, poiché la prima volta che è stato in competizione, nel 2000 con il suo secondo film, si trattava sempre di una trasposizione di un testo fassbinderiano. Tutto torna, soprattutto all'interno di quella sottocategoria della filmografia di Ozon che si interessa a giochi cinefili raffinati, divertendosi con i riferimenti e i generi senza voler fare troppo sul serio.
I dolori del non più giovane Peter
Siamo a Cologna, guarda caso nel 1972, e l'uomo che dà il titolo a Peter von Kant, interpretato da Denis Menochet, non si muove mai da casa propria. Quando non sta dando istruzioni al domestico Karl (battere a macchina una nuova sceneggiatura o una lettera per un'attrice con cui vorrebbe lavorare, portargli da bere, e molto altro), il cineasta sta o al telefono con la madre o impegnato in conversazioni con la figlia o con l'amica attrice Sidonie (Isabelle Adjani), la quale cerca di distrarlo dato che la sua storia più recente è finita molto male, al punto da rendere troppo strazianti anche i dettagli più crudi di ciò che facevano a letto, che Peter svela senza freni nel momento in cui lei chiede di sapere tutto. Tutti vorrebbero vederlo più calmo, ma tra alcool e sostanze stupefacenti il suo ego si fa sempre più smisurato e debordante, inveendo contro tutto e tutti come se non ci fosse un domani. Qualcuno riuscirà a domarlo?
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Dialogo tra cineasti
Nel 1972 Rainer Werner Fassbinder firmava con Le lacrime amare di Petra von Kant una storia interamente al femminile, dove i pochi uomini menzionati erano volutamente assenti sullo schermo A distanza di cinquant'anni François Ozon cambia il sesso del personaggio principale e riflette sulla figura del cineasta stesso, con un omaggio neanche troppo velato al suo predecessore: il film si apre e si chiude con fotografie di Fassbinder, e la performance di Menochet trae liberamente ispirazione dalla vera personalità del maestro tedesco, i cui eccessi portarono alla sua prematura scomparsa all'età di 37 anni. Lesa maestà o giocoso tributo cinefilo? Ozon punta sul ridere, nella sua forma più grottesca, ribadendo l'artificio dell'operazione in più punti, a cominciare dal fatto che tutti, nella versione originale, parlano francese malgrado l'ambientazione teutonica, con la parziale eccezione della madre del protagonista, la cui interprete Hanna Schygulla, già al servizio di Ozon in È andato tutto bene, faceva parte del cast del 1972.
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È un esercizio di stile che consente al regista di rielaborare alcune delle sue ossessioni in nome dell'amore per il cinema e di fare, a suo modo, una pellicola pandemica che non parla della pandemia: le location limitate e il cast ridotto si prestano perfettamente a questo tipo di logica, e se a tratti c'è un eccesso di autocompiacimento (che Ozon, notoriamente prolifico, si identifichi con l'ancora più prolifico Fassbinder è abbastanza palese), questo è compensato da un grande affiatamento tra i vari interpreti, tutti al servizio di un'amara commedia sulle debolezze e ipocrisie umane. Commedia che, tra l'altro, e forse inconsapevolmente, fa tesoro del detto "il gioco è bello quando dura poco": appena 85 minuti, contro i 124 del prototipo. Un divertimento a volte elementare, ma comunque efficace, con cui festeggiare le cinquanta candeline di una pietra miliare e il ritorno di Ozon a quella dimensione allegra e irriverente che mancava all'appello da qualche anno.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Peter von Kant ribadendo come in questo film François Ozon rilegga in maniera personale e irriverente uno dei capisaldi del cinema tedesco, riflettendo sulla figura dell'artista.
Perché ci piace
- Denis Menochet è strepitoso.
- La scrittura è generalmente frizzante.
- L'aspetto filologico è molto interessante...
Cosa non va
- ... ma a volte si fa un po' autocompiaciuto.
- Potrebbe urtare la sensibilità dei fan duri e puri del cinema di Fassbinder.