Una cena a casa di amici. C'è chi cucina, chi porta la classica bottiglia di vino, chi apparecchia e lo scansafatiche di turno che, ovviamente, si limita a mangiare senza alzare un dito. E invece no, per una volta, quella di Perfetti sconosciuti non è una serata come tante, non è una tavola dove verrà servita la solita minestra riscaldata dalla commedia italiana. Il menù cinematografico scelto da Paolo Genovese si dimostra subito allergico al prevedibile perché propone una ricetta semplice a cui basta un pizzico di brio, una sola trovata narrativa, per rimanere impressa negli occhi e nel palato del pubblico, assieme al suo gusto perfettamente agrodolce.
E allora ecco questi sette personaggi, a cena, a carte scoperte, amici da così tanto tempo da essere stanchi dei soliti discorsi (il tempo, le suocere, i neri con il ritmo nel sangue), tanto da stuzzicarsi a vicenda con un gioco, curioso e parecchio cinico: i cellulari vanno messi sul tavolo, si leggono messaggi di tutti e si risponde alle telefonate in viva voce. Quello che nasce come uno svago divertente per evadere dalla monotonia, vira poco alla volta, uno squillo per volta, verso il dramma.
La spensieratezza comica della prima parte del film si annacqua dentro bicchieri di vino rosso e lacrime, mentre le affinità esibite si sgretolano e anche i rapporti più solidi traballano. Ma a tavola c'è un posto vuoto, i perfetti sconosciuti sono sette, eppure è apparecchiato per otto. La bravura di Genovese è stata proprio quella di riempire quel posto con lo spettatore, facendo accomodare il pubblico tra queste persone così simili a noi, nelle contraddizioni, nelle ansie, nella disabitudine di un confronto aperto e autentico che non abbia a che fare con bacheche e filtri fotografici. A fine cena, a fine film, si torna a casa né a stomaco vuoto (delusi), né a pancia piena (rassicurati), ma con una nausea benevola, perché capace di farci digerire con calma un film più complesso di quello che sembra. Questo non è poco ed è il grande merito di una cena di cui stiamo per scoprire le portate principali, di un'opera che ha saputo inquadrare benissimo uno squarcio di contemporaneo con una bella foto che si muove e parla di tutti. Sì, in quel selfie di gruppo sul balcone, ci siamo anche noi.
Leggi anche: Perfetti sconosciuti, la recensione del film
L'alchimia tra i commensali
Sei settimane di riprese, gnocchi al pomodoro a volontà e un regista che ha riscritto un galateo tutto suo: si recita con la bocca piena. Le battute sporcate dalla masticazione, l'amicizia reale al di là del set e intense sessioni di riprese sono gli ingredienti neanche troppo segreti di un film corale assai intonato, completamente dedicato a volti e mezzibusti dalle sembianze teatrali, poi prestati al cinema. Perfetti sconosciuti trae la sua forza più grande dalle prove attoriali: equilibrate, credibili, affiatate, sospese tra la goliardia e l'amara consapevolezza. E se gli interpreti in ascesa si confermano (Edoardo Leo meno bonaccione del solito, Kasia Smutniak maturata sul divano di In Treatment e Anna Foglietta con tante sfumature), i "veterani" del gruppo gestiscono con sapienza il lento cambio di registro del film. Alba Rohrwacher è un concentrato di ingenua fragilità, Giuseppe Battiston usa la sua dolente autoironia come scudo, mentre Marco Giallini e Valerio Mastandrea tirano fuori il loro meglio: divertenti più che divertiti, maturi, pacati, pronti a guardare in faccia le cose così come sono.
Il gioco delle parti
Sette persone, o forse quattordici. Perché i cellulari sono le nostre appendici inevitabili, quasi entità a sé stanti con altre storie da raccontare e da nascondere. Scatole nere che registrano ogni cosa e a cui noi abbiamo concesso la responsabilità di contenere vite, ricordi e segreti. Paolo Genovese e gli altri quattro sceneggiatori quella scatola nera la aprono, come si farebbe con la confezione di un gioco di società, che poi diventa anche un gioco di ruolo dove ognuno è obbligato a difendere se stesso. Uno degli elementi fondamentali di questo grande successo cinematografico risiede proprio nella sua dinamica narrativa: partire da una situazione familiare, conviviale e riconoscibile come quella del gioco di gruppo non è stata soltanto un'idea potente del soggetto, ma un espediente grazie al quale il pubblico si è specchiato con facilità nei personaggi. Mettere i cellulari sul tavolo e aprirli agli occhi e alle orecchie altrui è un po' come tornare adolescenti e giocare a quei giochi "peccaminosi" come quello della bottiglia o "obbligo o verità". Ci siamo passati tutti e qui ci ripassiamo con una versione aggiornata, con delle regole semplici quanto spietate. Lo spettatore è invitato a partecipare ma, oltre a vivere l'imprevedibilità della situazione accanto a dei protagonisti messi a nudo, è anche divertito da un'iniziale posizione di comodo vantaggio: il piacere voyeuristico di assistere alle disgrazie altrui, di spiare, senza essere spiato. Poi, però, il tabellone viene stravolto e si esce dalla sala con una domanda fissa nelle testa: "Ma questo gioco avrei il coraggio di farlo?". Non sappiamo se l'esperimento sociale di Perfetti sconosciuti sarà imitato o evitato con timore, ma senza ombra di dubbio il film farà riscoprire a molti il conforto dei soliti discorsi, infarciti di luoghi comuni. Perché non ci sono più le mezze stagioni, giusto?
Aggiungi un post a tavola
E ripartiamo proprio da qui, dalla definizione di "luogo comune" che nel film viene in qualche modo riscritta. Questa volta il luogo comune diventa quel tavolo, quella casa, sono quegli amici. "Comune" nel vero senso del termine, condiviso per davvero, senza social network di mezzo, ma faccia a faccia con le persone reali e i compagni di una vita. Genovese invita la nostra generazione a capo chino ad alzare la testa (se non verso la luna) almeno verso i volti degli altri, portandoci a riflettere sul significato e sul valore che diamo alla condivisione. Cosa vuol dire davvero condividere? Quale parte di noi mostriamo agli altri? Senza mai risultare retorico, Perfetti sconosciuti non demonizza il mezzo (lo smartphone) ma l'uso che ne facciamo e lo fa andando molto al di là di tradimenti, corna, bugie di coppia. Le relazioni raccontate da Genovese sono minate dagli amanti, ma anche schermate dietro la distrazione, limitate dall'ego, svilite perché date per scontate. Così il rimedio, anche solo per 90 minuti, sembra semplicemente riuscire a parlare, ad aprirsi, senza "profili" ma a viso aperto. Un film basato sul dialogo, come se la parola fosse un prezioso rimedio per affrontare la verità, la miccia che conduce verso una realtà scomoda ma a volte necessaria.
Un messaggio trasversale
Ogni commedia vive di contrasti e ultimamente il cinema italiano si è fossilizzato anche troppo sull'opposizione di generi e caratteri. Nord contro Sud, maschi contro femmine e così via. In questo caso Perfetti sconosciuti riesce a conciliare più piani, diventando trasversale e vicino al pubblico in diversi aspetti. Come detto, Genovese non dedica il suo film soltanto alle coppie di amanti, ai mariti frustrati e alle mogli stanche, perché allarga lo sguardo verso una tessuto di relazioni molto più ampio. Tra sarcasmo, frecciatine e stoccate violente, il film de-scrive un piccolo manifesto sociologico che parla anche di amore, di amicizia, pregiudizi, stereotipi e dell'essere genitori. Laddove altre pellicole hanno facilmente giocato con il conflitto, Perfetti sconosciuti crea una rischiosa ma riuscita amalgama di temi e problematiche. E nonostante il buon Marco Giallini suggerisca saggiamente a fare sempre un passo indietro in ogni rapporto, imparando a "disinnescare", Genovese innesca un effetto domino di svelamenti dolorosi senza concederci il piacere sadico di un finale banale fatto soltanto di litigi e lacrime disperate. È una cena e come tale va digerita. Come fa Giuseppe Battiston saltellando teneramente vicino al Tevere.
La magia del disincanto
Nonostante la revisione del galateo e le chiacchiere a bocca piena, per raccontare questa fitta storia piena di intrecci, parole, speranze e rimpianti, Genovese ha indossato i guanti adatti per servire al pubblico un film dal giusto tatto. Il tono di Perfetti sconosciuti dosa benissimo la spensieratezza arguta del comico e l'intrusione graduale di un dramma quasi catartico, che ripulisce coscienze e fa venire a galla l'amara verità. E questa voglia di affrontare la bruttura è un altro elemento di rottura all'interno di un panorama cinematografico nostrano che ultimamente è fuggito lontano dalle responsabilità, tra immaturi, crisi di mezza età ed evasioni. Perfetti sconosciuti invece accarezza e poi prende a schiaffi, abbraccia e respinge. Il suo sms è destabilizzante, il suo messaggio chiaro senza essere urlato. E il what if finale, con le due sliding doors che si schiudono davanti al pubblico, è un modo elegante per concedere allo spettatore una scelta decisiva. Ecco arrivare la magia del disincanto, un bivio che divide la calda bugia dalla gelida verità, la vita così com'è dalle storie che siamo bravi a raccontarci da soli, anche senza bisogno del cinema.