Si possono scrivere grandi pagine di cinema anche senza inchiostro. Si può lasciare la propria firma indelebile anche senza impugnare una penna. E non è un caso che quando si parla di Sam Raimi tutto sia partito da un libro maledetto. Quel The Book of the Dead da cui tutto ha avuto inizio. Era questo il primo titolo immaginato per The Evil Dead, da noi diventato La casa, esordio folgorante di un regista da sempre ammaliato dall'orrore. Quello più violento, viscerale e indomabile. Quello che non ha paura di sconvolgere con sangue, urla e budella. In quella "casa degli orrori" è cresciuto il talento visionario di Sam Raimi, regista capace di imprimere la sua visione su un genere intero. Un genere riletto, reinventato, rivoluzionato. Plasmato dallo sguardo e dalle mani di un regista-artigiano come pochi. Perché Raimi per l'horror non è solo un cognome. È una diga. C'è un prima e un dopo Raimi. Personalità eclettica, che ha influenzato il cinema sia come regista che come produttore.
Oggi, in occasione dell'uscita de Il sacro male (prodotto proprio dal nostro), proveremo a capire come e perché Sam Raimi ha scritto la storia del cinema horror. E perché la sua impronta insanguinata si riconosce anche a occhi chiusi.
Tu chiamale, se vuoi, contaminazioni
Quali sono le due emozioni più forti, immediate e violente che ci siano? La paura e la risata. Terrore e ilarità si assomigliano più di quanto si possa pensare. Due dimensioni da sempre considerate agli antipodi, che Sam Raimi ha avuto il grande coraggio di far convivere sul grande schermo. Un'ibridazione di toni diventata un vero e proprio marchio di fabbrica della sua poetica. E così, da La casa in poi, il cinema di Raimi si è sempre dimostrato viscerale. Proprio come sono viscerali lo spavento e l'umorismo. Nasce così la sua personalissima versione dell'horror comedy, contaminazione di generi che grazie a registi come Raimi e John Landis ha conosciuto una nuova stagione di gloria. Una miscela di sangue e risate, mutilazioni e sorrisi che ha fatto scuola, come dimostrato da fenomeni come L'alba dei morti dementi, Quella casa nel bosco e Zombieland. Tutti film debitori nei confronti dell'eclettica sperimentazione di Raimi. Un regista-scienziato che nel suo laboratorio cinematografico ha creato meravigliosi intrugli dosando alla perfezione ingredienti spesso considerati agli antipodi. Raimi non ha mai avuto paura di stupire, destabilizzare, spiazzare. Fiumi di sangue e grasse risate stretti in un unico abbraccio non è più blasfemia, ma la firma riconoscibile di Sam Raimi sul grande schermo. Uno schermo che assomiglia sempre più a una montagna russa che passa da vette di divertimenti ad altre di pure raccapriccio. Una montagna russa dalla quale non vorresti mai scendere.
Decostruzione del genere
Per manipolare qualcosa, devi conoscerla molto bene. È quello che ha fatto Raimi con l'horror. Un genere con il quale il nostro ha familiarizzato sin da giovanissimo, quando da ragazzo fece indigestione di cult assoluti come Halloween, Le colline hanno gli occhi (il suo preferito) e Non aprite quella porta. Raimi non li ha solo visti, ma interiorizzati, studiati e vivisezionati nei minimi dettagli. E quando vivisezioni qualcosa non fai altro che decostruirlo. Attraverso il suo sguardo ironico, audace e grottesco, Raimi ha messo a nudo i cliché del genere horror (luoghi, situazioni, dinamiche e personaggi ricorrenti) per rileggerli sotto una luce nuova. Una luce più eccessiva, grottesca e sanguinolenta. Sempre pronta a destabilizzare lo spettatore. Il suo è stato un revisionismo anarchico, che ha fatto tesoro dei grandi maestri del passato per poter finalmente scrivere il proprio libro degli orrori. In questo modo Raimi ha rivoltato l'horror come un calzino, arrivando persino a profanarne alcuni stilemi sacri. Dalla costruzione della tensione ai movimenti di macchina frenetici e sgraziati, Raimi ha forgiato un horror tutto suo. Prima grezzo e poi sempre più raffinato nella sua vocazione caotica e contaminata. È come se negli anni quel ragazzino cresciuto con una Super 8 in mano non abbia fatto altro che scardinare preconcetti. Forse l'horror non è un genere rigido, immutabile e impossibile da profanare. Forse l'horror è fluido, malleabile, in divenire. Perché è solo un filtro attraverso cui guardare le persone e le loro misere esistenze. Talmente fluido da addentrarsi anche nel territorio del cinecomic, come dimostrato dal mai abbastanza celebrato Darkman (e dall'incombente Doctor Strange: In the Multiverse of Madness, annunciato come il primo horror del Marvel Cinematic Universe). Attraverso il suo modo di concepire l'horror, Sam Raimi ha scritto anche la sua personalissima lezione di vita. Perché se c'è un modo per irridere la morte, quella è l'ironia. Un'arma più potente di qualsiasi motosega.
Horror artigianale
Lo abbiamo definito prima artigiano e poi scienziato. È facile capire quanto Sam Raimi sia un regista legato alla manualità, a un cinema materico, analogico, tattile. Immune al fascino del digitale, il cinema horror targato Raimi ha sempre fatto della povertà di mezzi una scintilla per accendere la fiamma della creatività. Fare di necessità virtù è stato il suo motto. Tutta la saga de La casa rappresenta alla perfezione quanto Raimi abbia trovato proprio nella mancanza di denaro un'ottima scusa per solleticare il proprio ingegno. Solo per fare un esempio, è passata alla storia l'invenzione rudimentale della shakycam, ovvero una camera montata su un'asse di legno trascinata nel bosco per richiamare l'effetto della molto più costosa steadycam. Senza dimenticare quando rimase quasi da solo sul set de La casa (dopo l'abbandono del resto della troupe) e girò per altre cinque settimane rimaneggiando la sceneggiatura. Al fianco della sua proverbiale (e nobile) arte dell'arrangiarsi, la propensione di Raimi verso una dimensione più artigianale che artistica del cinema ha reso i suoi horror ancora più memorabili. Merito di effetti speciali bizzarri, ma efficacissimi nel restituire la delirante dimensione del terrore. Attraverso una serie di mostruosità rigorosamente analogiche, l'horror di Raimi è diventato fisico, quasi tangibile, con amputazioni e squartamenti raccapriccianti, messi in scena con rara immediatezza.
Uno sguardo più ampio
Lo sguardo attento di un autore curioso come Raimi va oltre la regia. Quello sguardo valica il proprio orticello per guardarsi attorno, alla ricerca di altre storie, di nuovi stimoli, di nuove sfide. È quello che è successo al Raimi produttore, un vero e proprio alter ego che sin dalla fine degli anni Ottanta si è dimostrato particolarmente prolifico. Ed è soprattutto in queste vesti che Raimi ha continuato a portare avanti il suo amore per l'horror, un genere esplorato in varie declinazioni e sfumature, con una particolare predilezione per i franchise. È a lui che dobbiamo l'adattamento del brand nipponico The Grudge o la creazione di una saghe originali come Boogeyman e 30 giorni di buio. Alternando disturbi psicologici a un orrore decisamente più esplicito, il Sam Raimi produttore ha sempre sostenuto giovani autori, spesso esordienti, alla guida di film con approcci decisamente originali al genere. Nel suo lavoro di scouting non è passato inosservato anche il disturbante Shrine, romanzo scritto dal celebre autore James Herbert nel 1983. È proprio dalle pagine di questo romanzo che nasce Il sacro male, l'ultimo lavoro di Raimi nelle vesti di produttore. Una storia piena di inquietante misticismo, dove una ragazza sordomuta ottiene straordinari poteri curativi dopo un miracolo. Sul misterioso caso indagherà un giornalista (interpretato da Jeffrey Dean Morgan) costretto a fronteggiare inquietanti apparizioni. Un'altra pagina di orrore segnata da un'impronta riconoscibile. Quella insanguinata e indelebile di Sam Raimi.