Peccati (poco) originali
"La setta dei dannati non è una storia sulla Chiesa o sulla religione. E' un thriller, anche se non si deve dimenticare che, nella storia cinematografica, alcune delle scene più spaventose si sono avvalse del mistero e del potere della religione come scenario di sfondo."
Craig Baumgarten, produttore, tra l'altro, dei due Universal Soldier, descrive così la sua ultima fatica, The Sin Eater (in Italia La setta dei dannati, ma conosciuto all'estero anche come The Order), girato a Roma, quarta regia dello sceneggiatore Brian Helgeland, vincitore del Premio Oscar per lo script di L.A. Confidential di Curtis Hanson, che raduna nuovamente, al fianco di Peter "Robocop" Weller, lo stesso cast che lo affiancò sul set di Il destino di un cavaliere (2001): Heath Ledger (Le quattro piume), Shannon Sossamon (Le regole dell'attrazione) e Mark Addy (The Time Machine).
Imbattutosi sette anni fa nel termine "divoratore dei peccati", cioè colui che si ciba dei peccati dei defunti, Helgeland spiega: "Il personaggio del Divoratore di peccati è nato durante il Medioevo, quando la Chiesa cattolica era molto potente. Se una persona si trovava in punto di morte, ed essendo stata scomunicata era nell'impossibilità di ricevere i sacramenti, la Chiesa inviava il Divoratore di peccati, che si riteneva potesse assolvere il moribondo, assorbendone i peccati."
A seguito di alcuni omicidi inspiegabili, un giovane sacerdote dell'ordine carolingio giunge a Roma per indagare e, affiancato dall'amico sacerdote Thomas e dalla pittrice Mara, si trova faccia a faccia con il Divoratore di peccati, personaggio chiave di un misterioso ed antico Ordine religioso, il cui ruolo, assolvendo i peccati di coloro che sono stati scomunicati dalla Chiesa, è quello di Dio in Terra.
Il nuovo lavoro di Helgeland segue la tradizione degli horror ecclesiastici a sfondo esorcistico, che ci hanno regalato pellicole come L'esorcista e La settima profezia, ma cita anche Warlock - L'angelo dell'apocalisse di Anthony Hickox. Purtroppo, però, il lungometraggio, caratterizzato da ritmi terribilmente lenti, manca totalmente di coinvolgimento e, sebbene i toni cupi della fotografia di Nicola Pecorini siano funzionali alla vicenda narrata, il risultato finale, oltre a riservare momenti involontariamente ridicoli, è prevedibile e scontato.
Helgeland sfrutta poco e male elementi che potevano migliorare il film, come l'inquietante figura di due bambini che ogni tanto fanno la loro apparizione, e, per salvare il pasticcio, non bastano qualche effetto speciale visivo realizzato per mezzo della computer grafica e l'uso del sonoro per rafforzare sequenze che in realtà non presentano alcun contenuto spaventoso.