Dopo la presentazione, a Roma, del notevole Sulla mia pelle, il regista Valerio Jalongo, i co-sceneggiatori Gualtiero Rosella e Diego De Silva e il produttore Rosario Rinaldo hanno svelato retroscena e traversie produttive del film.
Jalongo, ci può raccontare della sua esperienza di insegnante di sceneggiatura tra i detenuti di Rebibbia? Quell'esperienza ha influenzato il suo lavoro per il film?
Valerio Jalongo: Entrai lì per caso, su invito di un mio amico, e in seguito fui avvicinato da alcuni detenuti che curavano la biblioteca "Papillon". Sono stati loro a chiedermi di realizzare quest'iniziativa. Io gli accennai del mio progetto per il film, spiegandogli che si sarebbe trattato di un lavoro "di scambio", visto che quell'esperienza avrebbe poi influenzato molto quello che si vede nel film.
In che modo, poi, queste idee sono state interpretate e trasformate dagli sceneggiatori?
Diego De Silva: Io non credo che le sceneggiature nascano direttamente dalle esperienza di vita. Nel racconto, cinematografico e non, c'è una verità "narrativa" che è per forza di cose preponderante rispetto a quella "reale". Non bisogna fare confusione tra le due cose.
Gualtiero Rosella: E' stata un'esperienza lunga e stimolante, una di quelle storie difficili ma necessarie, che vanno raccontate. Abbiamo iniziato a lavorare sull'idea della semilibertà, e io mi sono occupato di costruire l'ossatura principale della sceneggiatura. Quando abbiamo deciso di ambientare il tutto nel territorio salernitano, abbiamo pensato subito che De Silva fosse la persona più adatta.
Rosario Rinaldo: Quando Valerio mi raccontò la storia, inizialmente si trattava di una commedia. In seguito abbiamo visitato i luoghi, abbiamo riflettuto sulla storia e sulle sue implicazioni, e quello che ne è venuto fuori, alla fine, è stato un melodramma.
Il tema centrale del film è quello della semilibertà, un istituto penale che è presente solo in Italia. Come vi ponete voi nei confronti di questo tema?
Valerio Jalongo: L'Italia è un paese ipocrita. La semilibertà è una cosa teoricamente bellissima, ma così come viene applicata non può funzionare. La stragrande maggioranza dei detenuti, tranne pochissime eccezioni (come quelli politici) non trova, fuori dal carcere, quella rete di solidarietà, quel complesso di strutture che dovrebbero realizzare davvero il "recupero" tanto agognato. Così, per la maggior parte di coloro che ne beneficiano, la semilibertà diventa soltanto un'occasione per tornare a delinquere.
Diego De Silva: Non è la semilibertà in sé a non funzionare, ma il modo in cui viene applicata. Non esiste una geometria delle competenze, non esistono strutture che assicurino che questo sistema, una volta applicato, possa realmente funzionare. L'esempio di Angelo Izzo è embematico: non ci si rende conto che si hanno di fronte individui che, potenzialmente, sono ancora pericolosi, che possono tornare a delinquere se li si mette nella condizione di farlo.
Comunque volevo sottolineare che questo, a mio parere, non è un film sulla semilibertà, quanto piuttosto una storia sul come usare la libertà appena riconquistata: il protagonista non è in grado di farlo, e spreca questo bene che gli è stato appena restituito.
Valerio Jalongo: Il film è anche uno studio su ciò che è oggi la libertà in genere, sui nostri spazi di libertà, che si riducono sempre più. Non è il protagonista Tony l'unico a non essere realmente libero, ma è uno stato che accomuna diversi personaggi, fuori e dentro le sbarre.
Questo è un film complesso, sfaccettato, che ha in sé diverse anime. Avete ammesso che è nato come una commedia, e si è sviluppato come un melodramma con un tema sociale molto forte. Come avete lavorato per tenere insieme le sue diverse componenti?
Rosario Rinaldo: Questo è un compito che spetta, normalmente, al produttore e al regista. Ci vuole una certa onestà intellettuale per trasformare un prodotto nel corso del suo iter creativo; la sceneggiatura è per sua natura materia viva, che è soggetta a mutamenti finché non raggiunge la sua forma compiuta, quella del film. L'importante è che il progetto, in tutte le sue fasi creative, mantenga una sua coerenza.
Si ha l'impressione che l'aspirazione alla libertà del protagonista non sia in fondo diversa da quella di un operaio che sogna di uscire dalla fabbrica per una lunga vacanza. E' così?
Valerio Jalongo: Gli uomini, dentro e fuori del carcere, sono accomunati dalla ricerca di un proprio spazio ideale. E' interessante notare, all'interno delle carceri, le foto appese alle pareti delle celle: oltre alle prevedibili immagini di donne più o meno svestite, si trovano sempre paesaggi esotici, immagini da cartolina di spazi ariosi, lontani. E' quello, per queste persone, lo spazio ideale.
Questo film sembra portatore di un'etica precisa, molto netta. E' giusto, in questo periodo di disimpegno, essere ancora di parte, ovvero schierarsi intellettualmente?
Valerio Jalongo: Io non credo che chi fa un film debba porsi nella stessa ottica di chi scrive un articolo: la partenza del percorso creativo che porta al film è sempre oscura, non sai mai precisamente dove andrai a parare. Certo, un tema etico forte in questo film c'è, ed è quello già sottolineato: l'aspirazione a conquistare o riconquistare la propria libertà, un tema che ci riguarda tutti, indistintamente.
Diego De Silva: Un'opera, se ha qualcosa da dire, la dice da sé, senza bisogno di forzature o didascalismi. E' il critico che poi dovrebbe avere il compito di tradurre il contenuto del film, che è in genere oscuro, in un linguaggio che sia comprensibile. Questo dovrebbe essere il compito della critica, compito che oggi molto raramente viene assolto.
Rosario Rinaldo: A mio parere, un film deve prendere posizione, avere il coraggio di schierarsi su determinati argomenti: la prudenza, nel cinema, non porta mai buoni risultati. Il cosiddetto "realismo", per quanto mi riguarda, equivale al collaborazionismo: per usare, da laico, un'espressione recentemente fatta propria dalla Chiesa, dico che è importante uscire dal relativismo.
Come mai la scelta un doppiatore del nord per dare la voce al protagonista Ivan Franek?
Valerio Jalongo: Franek è francese: ho provato a chiedergli se voleva recitare in italiano, ma mi ha risposto che non se la sentiva. Certo, adesso ha imparato l'italiano talmente bene che potrebbe farlo tranquillamente; comunque ho sentito il suo recitato in presa diretta, in francese, ed è straordinario. La cadenza del nord, in ogni caso, era fondamentale, da una parte per ribadire il carattere di "estraneo" del protagonista, dall'altra per dare credibilità alla storia: un detenuto salernitano che sfida dei camorristi, infatti, sarebbe stato sicuramente meno credibile.