Paolo Strippoli, classe 1993, è un caso tutto da studiare per il nostro cinema. Innanzitutto perché è giovanissimo ed ha comunque all'attivo già due lungometraggi, A Classic Horror Story e Piove, e, in seconda battuta, perché tutta la sua produzione è una produzione di genere e, per di più, è di genere horror.
Non solo dunque una tipologia di cinema che prevede delle caratteristiche precise, codificate e difficilmente scavalcabili (cosa che la rende, per ovvi motivi, di difficile attrazione per il famoso grande pubblico), ma anche una modalità sparita, a parte esempi ormai caduti in disgrazia per motivi di età e non solo, dalla nostra cinematografia.
Una cinematografia che al contrario, nel passato, è stata invece grande esponente anche da questo punto di vista, lasciando poi, come è capitato per gli altri, il campo scoperto e pronto per essere preso d'assalto da tutte le visioni estere possibili e immaginabili. Oggi infatti ci troviamo un pubblico bombardato, fondamentalmente, principalmente da idee di genere straniere.
Forse però, partendo da questi presupposti, non è poi così strano che una figura giovane, quindi figlia di questo mondo iperconnesso, come quella di Strippoli, abbia deciso di buttarsi nell'horror. Un po' perché "la natura odia il vuoto", e un po' perché nel cinema occidentale stiamo vivendo in un clima rinnovato per i generi, nello specifico l'horror.
Ne abbiamo parlato con lui, oltre a capire i suoi "perché" più personali e la sua visione di se stesso nel futuro prossimo.
Il nuovo horror
Partirei in modo abbastanza brutale, perché l'horror?
Perché è un genere che in questo preciso momento vive una rivoluzione a livello internazionale. L'horror contemporaneo si sta liberando di alcuni codici che un po' erano soliti stritolarlo e gli autori tendono a rispettare sempre meno i suoi appuntamenti, andando così incontro ad una rinascita all'insegna della libertà e dell'ibridazione.
Devo dire soprattutto in occidente anche grazie all'arthouse horror americano e a registi oggi molto popolari come Ari Aster, Robert Eggers, Jordan Peele.
Un discorso a parte vale invece per il j-horror che ha sempre il suo mercato. Io lo nomino spesso perché lo amo e perché tra i suoi capostipiti c'è uno dei miei registi preferiti in assoluto, Kiyoshi Kurosawa.
Prima di continuare infatti vorrei aprire una piccola parentesi su questo, dato che spesso ho letto che lo citi e perché in Piove ho trovato molti elementi proprio da horror asiatico. Cosa ti lega a questo genere?
Credo che un momento molto importante della mia vita l'abbia segnato una sera d'estate di quando avevo 13 o 14 anni, durante la quale andai con mia cugina, che mi accompagnava a vedere gli horror da bambino dato che nessun altro voleva farlo, a vedere Pulse. Io ero attratto dalla pellicola perché tra i produttori figurava Wes Craven, ma non sapevo invece che il film fosse un remake, né che fosse il remake di un film asiatico, né, tanto meno, che io stavo andando a vedere proprio quello, ovvero Kairo di Kurosawa. Mi ingannò la locandina.
All'epoca non ero un fan del cinema asiatico, per usare un eufemismo, e quindi non sapevo che la pellicola faceva parte di un movimento asiatico che trattava l'horror in un modo assolutamente proprio, ben distante dai canoni a cui ero abituato.
Mi ricordo che quella visione mi fece particolarmente male, disturbandomi oltre ogni aspettativa e facendomi interrogare sulla morte più di ogni altra cosa che avessi visto o letto fino a quel momento.
È difficile dire a parole cosa provai... mi svuotò ecco, diciamo così. Sensazione che ho rigettato per un po' di tempo, ma che poi mi ha fatto crescere, diventando parte della mia formazione non solo cinematografica.
Ho percepito come quel film fosse più dell'horror "formulato" che ero abituato a vedere, fatto di fermate programmate, di spaventi, di suonacci e di buio. Un discorso che andava oltre il genere.
Fu il mio primo approccio all'horror inteso in un'accezione diversa rispetto al genere di intrattenimento che spesso siamo abituati a ingoiare.
Tornando a noi, quindi il perché fare horror oggi è legato al fatto che anche nel mainstream si può provare a lavorare con un'idea meno convenzionale?
Si, diciamo che la modalità più libera di cui ti stavo parlando penso si possa adattare meglio nella nostra cinematografia. È una bella occasione. Noi abbiamo visto (e un po' ci gioco in A Classic Horror Story) che l'horror classico, quello fatto di codici, è qualcosa di più complesso da fare qua, perché ne abbiamo visto tantissimo, ne conosciamo benissimo le regole e in più siamo molto disabituati a vedere il personaggio italiano, il personaggio che parla italiano, là dentro. Ci sembra automaticamente una parodia, ci sembra qualcosa di fuori posto. La lingua è una delle più grandi barriere che abbiamo in Italia. C'è un grande sospetto sin dalla pubblicazione dei materiali pubblicitari dei film horror italiani. Basta aprire Facebook, Instagram o YouTube e andare a vedere i commenti a proposito di un qualsiasi nostro horror. Sotto tutti quegli esperimenti, questi tentativi, troverai le stesse frasi: "Ma fanno ridere questi che parlano in italiano", "Perché non parlano in maniera pulita?". "Perché? Perché?", ma perché la lingua italiana, se non è filtrata da un doppiaggio che la sporchi, verrà percepita dal pubblico italiano come strano, amatoriale, ridicolo.
Penso che in un horror meno codificato, che non ti sembra neanche un horror all'inizio, si possa trovare un modo per scavalcare il pregiudizio. Dentro questa nuova branca potremmo trovare questa identità.
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L'horror e l'Italia
La lingua italiana è un problema anche all'estero? Sei soddisfatto di come è stato accolto il tuo ultimo film, Piove, nelle sale?
Ovviamente a livello di grande pubblico questo sceglierà sempre o la propria lingua o l'inglese, quindi l'horror italiano, o il film italiani in generale, all'estero avranno sempre più difficoltà, tolta qualche illustre eccezione. Ma ti posso dire che la lingua italiana all'estero non è mai un problema, il pubblico ha risposto molto bene, sono stato molto felice delle proiezioni. Il problema più grande è qui. Nel caso specifico di Piove, però, devo dire che sono rimasto soddisfatto quasi sotto ogni punto di vista, perché, nonostante non sia un horror classico, è stato accolto molto bene nei festival di genere e perché, nonostante la censura che gli è stata applicata, ha avuto un'ottima accoglienza nelle sale.
È ancora difficile fare horror in Italia?
È ancora difficile, si, specialmente se non sei un autore con cinque film alle spalle, con dei successi di botteghino che possano dare sicurezza. Probabilmente servirebbe non solo che i giovani si misurassero con l'horror, ma che lo facessero anche dei registi più grandi e riconosciuti che non lo hanno mai fatto prima, in modo da portare il loro nome all'interno del circuito.
Ce n'è uno tra i grandi che lo sta facendo, in realtà, anche se lui lo fa fuori.
Si e proprio per questo, nonostante per noi il suo lavoro sia una grande fonte d'orgoglio, la sua non è un'operazione che aiuterà a risolvere il problema o a far tornare la fiducia nell'horror italiano.
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Tu però sei un bel segnale in questo senso, no?
Io me lo auguro, ma sono cambiamenti che vedremo tra un po'. Se tra due o tre anni usciranno cinque horror al cinema allora qualcosa di buono sarà successo. Non solo dai giovani però (ride). Oggi c'è anche ancora molto poco horror italiano che si produce, soprattutto a livello ufficiale. Perché la realtà underground è sempre esistita e io la apprezzo, spesso la guardo e trovo ci siano anche delle chicche, ma è difficile che siano questi prodotti, per quanto validi, a sfondare la barriera dei pregiudizi, sia in sala che sulle piattaforme, dove è ancora più difficile.
Quindi ci vuoi puntare ancora?
Il mio è un percorso che lentamente si allontana dall'horror. Non perché lo rinneghi, anzi, lo amo e lo amerò per sempre e mi piacerebbe anche fare qualcosa di ancora più dritto rispetto a ciò che ho fatto finora, ma quello che sto provando a creare adesso è in qualche modo una commistione di generi ancora più radicale di Piove. Mi piacerebbe fare un film che, nel raccontare una storia famigliare, si distanzi ancora di più dai codici classici e in cui l'horror non solo arrivi più lentamente, ma quasi senza che lo spettatore se ne accorga. Voglio sorprendere, questo vorrei, ma non perché rinnego l'horror, che amo, lo dico ancora, e di cui non mi vergogno e che vorrei vedere valorizzato e legittimato il più possibile. Arrivo a dirti che nonostante io speri di fare altri generi in futuro, una parte di me spera di continuare a fare horror perché vuol dire che penserò ancora che varrà la pena insistere.