Pantafa, la recensione: il corpo spettrale della paura popolare

La recensione di Pantafa, horror coraggioso di Emanuele Scaringi con protagonista un'impeccabile Kasia Smutniak dove la superstizione popolare incontra la paura più recondita dell'animo umano.

Pantafa, la recensione: il corpo spettrale della paura popolare

E così giunge per il buio il tempo di calare, e per i mostri di svegliarsi. Sono spettri mentali, ombre nate dallo spegnimento della razionalità e dall'accensione delle paure più recondite e indicibili. Sono fantasmi che si alimentano delle paure umane, spostandosi tra aliti di terrore e pause angosciose di racconti folkloristici.
Come sottolineeremo in questa recensione di Pantafa, il film diretto da Emanuele Scaringi e presentato al Torino Film Festival 2022, inspira a pieni polmoni quella nebbia nefasta che avvolge borghi lontani, sperduti, fortemente ancorati a un immaginario ancestrale e superstizioso di un'Italia antica. L'Abruzzo si fa in questo caso tela decorata da fondali antichi, come case abbandonate, e vie desolate. Nessuno a correre spensierato tra le strade; ciò che avvolge l'arrivo in macchina di Marta (Kasia Smutniak) e sua figlia Nina è un labirinto di campi e case, parchi e bar in cui è impossibile nascondersi se gli spettri fanno capolino. Un inizio alla Shining, che lascia spazio a un dialogo serrato tra ciò che è vero e ciò che è immaginato, rivestendo di incubo e superstizione un'opera coraggiosa, destinata però a perdersi nei suoi metri finali.

Pantafa: la trama

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 1
Pantafa: una scena del film

Marta e Nina sono più che madre e figlia. Tra di loro vige un legame quasi simbiotico che spinge la donna a trasferirsi in una vecchia casa nel paese spettrale di Malanotte in Abruzzo. Una scelta azzardata, ma compiuta per alleviare lo stato psicologico della bambina. Ma nulla pare funzionare; anzi, la situazione clinica di Nina continua a peggiorare. La piccola inizia a soffrire di gravi paralisi ipnagogiche che assumono caratteristiche orrorifiche: durante il sonno Nina vede uscire dalle pareti una figura fantasmatica che si acquatta sul suo petto e cerca di succhiarle via l'anima. Le preoccupazioni per le suggestioni di Nina vengono ingigantite dalla signora Orsa, che riconosce la figura spettrale della Pantafica nella descrizione di Nina. Qual è la verità? Solo uno scherzo della mente, come sostiene Marta, o il male ha davvero preso connotazioni reali?

Tradizioni di timori ancestrali

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 6
Pantafa: una scena del film

È un viaggio silenzioso in un'Italia pagana che ancora sopravvive e sussiste, Pantafa. Un attaccamento a radici ancestrali impersonato nella leggenda della Pantafica, personificazione dell'incubo del folklore abruzzese e marchigiano. Attorno alla figura spettrale di questa strega dai tratti mefistofelici, si sviluppa nel film di Scaringi un corollario di immagini ipnagogiche nate dall'abbassamento dei livelli di razionalità e correlate alla potenza di un pensiero onirico, fantastico, istintivo. È il mondo immaginato che si incontra con quello quotidiano, in un'esplosione che distrugge il confine tra sogno e veglia, lo stesso che si compie nella fucina della Settima Arte. È dunque interessante il discorso meta-semantico redatto da Scaringi con il suo Pantafa: qui l'universo immortalato si fa sineddoche replicante l'essenza pregnante del contenitore cinematografico che lo accoglie: una scatola cinese che rimanda a sua volta a quell'arte antica dove le immagini in movimento non nascevano dall'accensione di una luce di proiezione, bensì dalla potenza dei racconti.

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 4
Pantafa: una scena del film

È il monito che si fa fiaba e la fiaba che si fa cinema: un cortocircuito di timori ancestrali che il regista tenta di convogliare nei termini di un'opera orrorifica che da una parte assimila e omaggia la produzione anglofona (Babadook) e dall'altra tenta di recuperare una corrente da anni ormeggiata sulle battigie desolate del cinema italiano di genere (Non si sevizia un paperino). Scaringi si dimostra pertanto capace di tradurre in termini di riprese dinamiche, claustrofobiche e angoscianti l'essenza più inspiegabile - e per questo terrificante - che sottende il mondo dei racconti folkloristici solo con il potere di inquadrature angolate e lenti grandangolari.

Da Pantafa a Babadook: la figura della madre negli horror

Dai corpo alla paura e distruggila

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 13
Pantafa: una scena del film

Sottende nello strato più profondo di Pantafa quell'essenza più onirica, ancestrale, che scorre silente nel sottosuolo dei borghi italiani. Un ancoraggio a radici archetipiche e pagane qui restituite dalla crudezza di un linguaggio diretto, appuntito, cesellato dalla forza del dialetto. Un ulteriore rimando a quell'essenza più vera e antica di un mondo ancora arcaico, e per questo puro e innocente. Se la tecnologia, e la conoscenza alla portata di clic hanno saputo dare una spiegazione alle paure, esorcizzando i mostri nati dal sonno della razionalità, continua a vigere nel cinema quel desiderio di catarsi che porta alla rivelazione visiva di una leggenda come quella di Pantafa.

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 9
Pantafa: una scena del film

La donna che si siede sul petto del bambino per togliergli il respiro si fa adesso vera, visibile, e per questo annullabile. Una struttura che Scaringi assimila e interiorizza, restituendola nei termini di un horror a basso costo, eppure dal forte impatto. Una maglia di onirica fattura, questa, che inizia però a sfilacciarsi nel finale. Desideroso di lasciare il proprio spettatore in uno stato di spaesata angoscia, il regista cade nel baratro del facile spavento, sacrificando quella compattezza a poco a poco costruita e modellata in precedenza, a discapito di un epilogo debole e alquanto confuso.

Girotondi spettrali di un'umanità invisibile agli occhi

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 14
Pantafa: una scena del film

È quando il tempo scorre, e la fine si avvicina, che Pantafa si perde, si indebolisce, lasciando spazio a un discorso dispersivo e autonomo. Lontano da quel saggio redatto da Scaringi sul potere del credo popolare e delle proprietà di atavico terrore nascosto nel sottosuolo paesano, il finale vive un'esistenza indipendente; pressato dalle aspettative imposte dal genere, e soffocato dalla pressione di reiterare i canoni tradizionali della letteratura horror, l'epilogo va a ribaltare le attese venutasi a creare fino a quel momento, deludendo le aspettative e tradendo la sostanza di ciò che lo ha preceduto. A donare un senso di profonda coerenza a un'opera che lascia nel fuori campo - e quindi a ciò che non si vede, ma si immagina - la propria forza emotiva, è comunque un costrutto visivo che va a sopperire una sceneggiatura fondata sul non detto e sulle formule magiche di riti scaramantici.

Pantafa Photo Credits Christian  Nosel 11
Pantafa: una scena del film

Quello di Pantafa si trasforma dunque in un girotondo di spettri pronti ad ammantare di glaciale respiro il mondo che li circonda. Un abito cucito di paura atavica perfettamente restituito da una fotografia fredda e desaturata che comprime e costringe le proprie protagoniste in un ambiente che le risucchia, riducendo al grado zero l'iterazione con gli altri.
Lontano da abbracci calorosi, dall'ausilio della tecnologia e dalla claustrofobica folla cittadina, il borgo di Malanotte sputa le protagoniste in un microuniverso quasi disumano e animalesco, dove tutti perdono la propria umanità per farsi spettri, fantasmi, tessere misteriose di un puzzle antico e senza tempo, suggellato da irrazionalità e superstizione.

Conclusioni

Concludiamo questa recensione di Pantafa sottolineando come l'opera di Emanuele Scaringi tenti di apportare con coraggio una nuova linfa vitale al genere horror nel panorama italiano. Prendendo in prestito dal suolo anglo-americano varie tematiche e giochi di ripresa, il regista costruisce un film interessante, giocato sulla forza tutta italiana del folklore popolare. Ciononostante, il finale risulta troppo semplificato e dispersivo, quasi volesse portare a termine nel breve tempo possibile una storia che fino a quel momento risultava compatta e ben costruita.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
4.0/5

Perché ci piace

  • Le scelte di ripresa di Scaringi, atte a tradurre visivamente il senso di angoscia e paura che vivono i personaggi.
  • L'attaccamento alle radici più superstiziose di un'Italia popolare.
  • La fotografia desaturata.
  • L'uso dell'accento e del dialetto.
  • La performance di Kasia Smutniak.

Cosa non va

  • Il finale sfilacciato e dispersivo.
  • L'incapacità a volte di gestire con sicurezza la portata angosciante del proprio racconto.
  • La pressione per rimanere attaccati ai canoni del genere.