Non c'è dubbio, l'esordio alla regia di Michele Riondino è oggettivamente interessante. Lo è per la sua visione dell'insieme, e lo è soprattutto per la nevralgica scelta del racconto. Cronaca che diventa cinema, finzione che torna ad essere realtà, accesa dal bisogno di tornare ad illuminare una vicenda nascosta dell'Italia degli Anni Novanta. Ecco allora Palazzina LAF, marcato da una prerogativa filmica strettamente contemporanea, a metà tra grande schermo e produzione televisiva. Ormai ci abbiamo fatto l'abitudine: oggi un film per il cinema viene scritto e diretto anche per il conseguente passaggio tv. Ciò che fino a qualche anno fa era sinonimo di mediocrità (secondo i punti di vista più "puristi"), adesso è un metodo appurato, e logico per l'epoca distributiva che stiamo vivendo (che piaccia o no).
Questo non toglie, comunque, che Riondino sia un buon regista, e soprattutto un ottimo sceneggiatore (il film lo ha scritto insieme a Maurizio Braucci). Dietro una storia tanto incredibile quanto drammatica, Palazzina LAF ci spinge a domandarci come potrebbe proseguire la carriera dell'attore anche come autore, in quanto l'esordio, al netto del dichiarato coinvolgimento emotivo, lascia intravedere un certa caparbietà e un'apprezzabile prerogativa cinematografica. Un coinvolgimento emotivo perché il film, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, nasce dalla sua Taranto. Anzi, nasce dall'ILVA di Taranto. Un universo a sé, controverso e complesso (eufemismi), nel quale c'era al suo interno un altro microcosmo. Appunto, il Laminatoio a Freddo. Per brevità chiamata la LAF.
Palazzina LAF, la trama: nel ventre dell'ILVA di Taranto
Un gruppo di dipendenti pagati per non lavorare. Fantasmi, o meglio dire zombie. Un lager in cui timbrare il cartellino, finendo a girarsi i pollici. Ora dopo ora. Tra una partita a carte e l'ennesimo caffè. Il mobbing nella sua forma più strana, per certi versi primordiale se pensiamo alla cornice temporale del film: 1997. Eccoci dunque nel complesso industriale dell'ILVA. Si lavora il metallo, anche se lì intorno "non c'è nemmeno una fabbrica di forchette". Si lavora, si tossisce, e ci si ammala. Gravemente. Certi scandali non sono ancora stati portati alla luce, anche perché la direzione aziendale sembra ricorrere spesso e volentieri al "canarino" di turno. Qualcuno che ascolta e riporta le rimostranze degli operati, stretti tra i sindacati e la paga a fine mese.
Tra loro c'è Caterino (interpretato dallo stesso Riondino), un uomo sempliciotto che vive accanto all'ILVA, insieme alla fidanzata Anna (Eva Cela) sognando di trasferirsi, prima o poi, in città. Fiuta l'opportunità quando accetta di fare la spia, seguendo e denunciando gli operai riottosi ai superiori (tra cui un grande Elio Germano, ambiguo e viscido). Quei colleghi che poi vengono spediti nella Palazzina LAF. Agli occhi stolti di Caterino tutto questo sembra il paradiso: si viene pagati per non fare nulla. Tuttavia, la finta promozione è invece una punizione inflitta verso uomini e donne defraudati del proprio orgoglio e delle proprie mansioni.
Una storia vera, cinema pop e le inflessioni da film western
Sarebbe facile ridurre Palazzina LAF solo come cinema sociale, in stile Francesco Rosi, e infatti da parte di Riondino c'è una messa in scena che ammicca al pop, senza vergognarsi di risultare accessibile al pubblico, spingendo sulla grinta e sulla rabbia, prendendosi poi il coraggio di portare il discorso fino in fondo. Del resto, è questo che il cinema deve fare: arrivare. E Palazzina LAF, al netto di alcune indecisioni, come scritto all'inizio, arriva forte e chiaro. Potere del pop, quindi. Come dimostra l'ottima colonna sonora originale di Teho Teardo (a proposito di musica, all'inizio c'è anche la hit The Bad Touch dei Bloodhound Gang!), oltre all'estetica di una fotografia (Claudio Cofrancesco) che per colori ricorda i film western. A guardar bene, come se fossimo nel Far West, la Palazzina LAF - e il concetto allargato dell'ILVA - è un non luogo fatto di acciaio e polvere, di precarietà e di punizioni; un universo disgraziato e brutale nel quale non ci sono regole, non c'è una sovranità. Un panorama dove gli sceriffi sono i fuorilegge, e i fuorilegge sono gli sceriffi, imprigionati in una galera senza sbarre.
Come nel vecchio West, nella Palazzina LAF di Riondino anche i confini vengono annullati. Niente legge, allora, bensì, ecco la dittatura del "disinteresse" che, citiamo Riondino, "ha sacrificato un'intera città sull'altare del proprio capitale". È questa, più di ogni altra cosa, l'intenzione primaria del regista, che stava scrivendo il film con il supporto del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande (scomparso nel 2017): delineare la suggestione di un reparto lager, scovato e salito alla cronaca insieme al processo giudiziario a difesa dei 79 lavoratori coinvolti, scoperchiando l'assurda visione politico-e-sociale che attanaglia Taranto, ancor prima della cronaca corrente. Nel farlo, Riondino ha messo insieme i fatti grazie alle testimonianze di ex dipendenti ed ex confinati, strutturando un affresco filmico diretto, essenziale e asciutto. Lasciando dietro di sé una traccia di pericolose scorie. Notevole.
Conclusioni
La storia, assurda ma vera, della Palazzina LAF, reparto di epurati (stipendiati) nell'impianto ILVA degli Anni Novanta. Da qui, Michele Riondino parte per la sua prima regia, dirigendo un film asciutto - ma forse troppo teorico - dai risvolti politici ma soprattutto umani. Come rimarcato nella recensione, l'atmosfera in generale, pop e coinvolgente, ricorda gli archetipi western. Interessante.
Perché ci piace
- La storia, assurda e incredibile.
- Una buona regia.
- Lo sguardo generale, da film western.
Cosa non va
- Alcuni momenti, forse troppo teorici.