Le dinamiche sono incerte, i motivi poco chiari, ma di tanto in tanto, periodicamente, Hollywood diventa ossessionata da un tema. I cinecomic tirano tutt'ora, non ci riferiamo a questi macro-contenitori e concentrati di blockbuster, ma a qualcosa di più specifico e in grado di spaziare tra cinema autoriale e commerciale. In merito, il recente cavallo di battaglia seriale e cinematografico tra i grandi colossi dello streaming è senza ombra di dubbio la crisi degli oppioidi negli Stati Uniti d'America, un'emergenza sanitaria epidemiologica che tra gli anni '90 e oggi è costata la vita a circa un milione di persone, tutte morte per overdose da farmaci oppiacei legalizzati. L'epidemia causa ancora adesso più di trecento decessi giornalieri in America, riconosciuta soltanto nel 2017 come un problema di rilevanza nazionale.
La scelta di produrre lungometraggi e show dedicati al tema è forse connessa alla cosiddetta Quarta Ondata della crisi iniziata nel 2016 e ancora oggi attiva, forse per sensibilizzare cittadini americani e del mondo sul tema e mostrare le terribili conseguenze sociali e culturali legate a questo abuso legale di sostanze oppioidi. Tutto giusto, tutto corretto. Ma c'è un limite anche alla ridondanza concettuale e alla derivazione creativa, e ammettiamo candidamente che quel limite Pain Hustlers - Il business del dolore di David Yates lo ha abbondantemente superato.
Sempre la stessa storia
Prima Dopesick su Disney+, poi Painkiller su Netflix e ancora una volta - seppure sfruttando il genere - La caduta della casa degli Usher di Mike Flanagan, senza contare i tanti documentari inerenti l'argomento e prodotti proprio negli ultimi due anni. La crisi degli oppioidi americana si è trasformata in una crisi epidemica di idee che ristagna nel mercato e miete vittime tra le fila della pazienza del grande pubblico, davvero abusata. C'è un overdose progettuale e stilistica che sta mandando in tilt il sistema, soprattutto in brevissimo tempo. Passi apprezzare l'apripista Dopesick e ricalibrare l'attenzione su Painkiller grazie al suo stile molto mackayiano, ma anche godere della rilettura del famoso romanzo di Edgar Allan Poe operata da Flanagan per ri-elaborare l'opera, modernizzarla e creare un fil rouge contestualizzato tra morte (o immortalità) e dolore.
Quello che risulta quasi inaccettabile è però assistere a una riproposta degli stessi temi senza particolari idee personali, caratteristiche, che donino identità e anima al progetto. Pain Hustlers - Il business del dolore è proprio questo: un contenitore di già vista, solo ed esclusivamente derivativo, che poggia la sua intera fortezza cinematografica sulle spalle di due interpreti molto forti e quotati come Emily Blunt e Chris Evans e fa di tutto per imitare gli altri, che sia il cinema energico e sfrontato di Adam McKay, la struttura seriale di un Painkiller o addirittura la verve stilistica di un maestro come Martin Scorsese (ritroverete tanto The Wolf of Wall Street all'interno del film).
David Yates: "Dopo i film di Harry Potter avevo bisogno di un progetto come Pain Hustlers"
Tutto a posto, niente in ordine
La criticità base di Pain Hustlers risiede nel suo essere terribilmente volatile, figlio di una storia già narrata, girato da un regista senza firma che strizza l'occhio ovunque e a chiunque, disinteressato a portare qualcosa di nuovo o di efficace in questa sorta sotto-genere crime-drama farmacologico. Il paradosso è che il film non è nemmeno brutto: ha un ritmo ben cadenzato, validi interpreti, un montaggio efficace. È che niente (davvero niente) è farina del suo sacco. È come un film della Asylum: nato per seguire un trend, un successo momentaneo. Persino il racconto, basato su di un libro inchiesta del 2022 di Evan Hughes, non fa altro che elasticizzare e approfondire un ruolo già appartenuto a West Duchovny nella serie con Matthew Broderick: quello della venditrice creata dal nulla. Ragazze avvenenti e particolarmente capaci di conquistare la fiducia dei medici, tanto che alla Zanna (compagnia al centro del film) il motto è "possiedi il medico, possiedi il tuo destino", con qualsiasi mezzo: regali, favori, psicoterapia amichevole, dogsitter. Tutto.
La differenza sostanziale è nella morale della protagonista interpretata dalla Blunt, che al netto del suo bisogno economico (legata comunque a una condizione della figlia) appare molto più umana e poco disposta a superare i suoi orizzonti etici e ideologici, muovendosi solo - come suggerito dal personaggio di Evans - "appena al di sopra del limite di velocità". Non come il CEO dell'azienda o il suo "ispido miliardario" fondatore (Andy Garcia). E il gioco è tutto qua, tra un'occhiatina e l'altra (anche a Trafficanti di Todd Phillips, tra l'altro), una mega-casa e una mega-scuola, castelli di denaro e feste astronomiche. Finché tutto si spezza e il rispetto guadagnato con i soldi non basta più a nascondere incubi e sensi di colpa. Una riflessione anche valida e pertinente che non viene però trattata nel modo adeguato, che non sa bene cosa farsene del dolore di chi ha sofferto veramente (ne sa come raccontarlo) e allora imbroglia e usa quello della protagonista - e colpevole - per raggiungere lo scopo, una sorta di redenzione e scusante, mettendo ogni cosa al suo posto nonostante un chiaro disordine qualitativo.
Conclusioni
Tirando le somme della nostra recensione di Pain Hustlers - Il business del dolore, il nuovo film di David Yates è un more of the same degli ultimi progetti (seppure seriali) dedicati alla crisi degli oppioidi americana, più furbo e derivativo, senza carattere né idee particolarmente brillanti, buono senza reali meriti, volatile e godibile senza nulla aggiungere o togliere al discorso.
Perché ci piace
- L'interpretazione di Emily Blunt.
- Le strizzatine d'occhio a McKay e Scorsese...
Cosa non va
- ... Se non fosse che registicamente parlando il film si ferma solo a questo.
- Non dice nulla di nuovo sull'argomento.
- Chris Evans troppo macchiettistico.