Kyle Barnes ha una maledizione. O meglio, Kyle Barnes è una maledizione. Vicino a lui ogni cosa appassisce, dagli alberi secchi attorno alla sua isolata casa nel West Virginia, alle persone, di colpo inaridite, incattivite, cambiate in peggio. Per questo Kyle è un reietto, un emarginato vincolato alla sua condanna, costretto a vivere da solo, lontano dai suoi affetti e dai suoi effetti su di loro. Madre, moglie, figlia; nessun amore è stato risparmiato dalla spirale di dolore in cui è immerso questo personaggio tormentato da se stesso e da oscure forze demoniache. Perché Outcast parla di questo, di un'apocalisse privata, di un buco nero dell'anima che implode di continuo. Quella che sembra una classica storia horror basata su continui esorcismi, si dimostra presto qualcosa di molto più complesso e profondo.
Lo abbiamo capito dopo aver visto l'episodio pilota dell'imminente serie TV, ma soprattutto leggendo il fumetto da cui la serie è tratta, pubblicato dalla SaldaPress in una rara versione in bianco e nero (esclusiva per l'Italia), dove i grigi restituiscono alla perfezione le atmosfere tetre e rarefatte in cui veniamo inevitabilmente immersi. Il merito è del tratto evocativo di Paul Azaceta e della mente di Robert Kirkman, abile sarto capace di vestire il Male in tanti modi; dopo aver raccontato il mondo dopo la fine con The Walking Dead, il fumettista del Kentucky ha deciso di soffermarsi sul dramma di una sola persona e di un persona sola, su un'altra storia di sopravvivenza vissuta dentro panorami ancora più svuotati.
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Non c'è coralità in Outcast, ma una piccola schiera di personaggi che ruota attorno a Kyle, deus ex machina riluttante, calamita di misteri, malefici, possessioni, rapporti incrinati. Alla vigilia del suo esordio televisivo (il prossimo 6 giugno su Fox), abbiamo deciso di raccontarvi cosa ci spinga a sperare in Outcast, quali siano le sue potenzialità, e perché crediamo che, dopo il vasto contagio zombie su larga scala, potremmo trovarci davanti a schiere di telespettatori posseduti. Con buona pace di qualsiasi esorcista.
1. Un progetto transmediale
Outcast è una serie tratta da un fumetto? Più o meno. Forse sarebbe più corretto dire che Outcast è una serie nata assieme ad un fumetto. A differenza di The Walking Dead, questa serie nasce come prodotto "binario" sin dalle prime battute; nelle intenzioni di Kirkman c'è il desiderio di sperimentare in maniera ancora più ardita e approfondita il concetto di narrazione transmediale. L'autore ha più volte dichiarato l'inutilità di una serie completamente fedele alla sua fonte fumettistica e l'esigenza di raccontare la stessa storia da punti di vista differenti, l'interesse per una narrazione ad ampio respiro in grado di mettere in luce aspetti diversi su medium diversi. La serie di Outcast non sarà quindi identica al fumetto di Outcast, ma ci verranno fornite suggestioni simili da punti di vista differenti; un aspetto che rende i due prodotti ancora più interessanti e complementari. Per quanto l'episodio pilota ci sia sembrato fedelissimo al primo albo (sul set, il disegnatore Azaceta ha dichiarato: "Mi sembrava di camminare nei miei disegni"), l'originalità di questo progetto risiede nella consapevolezza di produrre a monte due narrazioni affini ma non sovrapponibili. A dimostrazione di quanto Kirkman sia sempre più affascinato dalle potenzialità dell'audiovisivo e conscio dell'unicità come dei limiti del mezzo-fumetto. E in effetti, in una serie horror, le immagini in movimento e il sonoro sono più che benvenuti.
2. L'ambientazione
Rami secchi ovunque. Non c'è vignetta di Outcast che non abbia sullo sfondo un albero spoglio e pungente, un elemento naturale ostile che non faccia emergere di continuo la desolazione a cui Kyle è stato costretto. Il West Virginia non è un contesto casuale, ma una periferia spoglia e poco abitata fortemente voluta da Kirkman, perfetta per rappresentare l'esilio forzato di Barnes, la solitudine di un uomo che vive immerso nel silenzio. Dalle abitazioni ai supermercati, dalle tavole calde alle stazioni di servizio, ogni luogo sembra svuotato di vitalità, contornato solo da foglie secche e foreste dimenticate. Ecco, questo aspetto scenografico altamente immersivo viene ripreso con grande cura sin dalla prima puntata della serie. Un buon motivo per credere che Outcast possa inquietare anche con un semplice panorama.
3. Il diavolo si nasconde nei dettagli
Le celebre frase di cui sopra, in Outcast, si trasforma in un imperativo ossessivo, diventa una vera e propria cifra stilistica. Chi come noi sta leggendo il fumetto (in Italia siamo arrivati al numero 8, che corrisponde al sedicesimo albo pubblicato negli States) sa bene che Kirkman ha scelto di disseminare dentro ogni tavola tante piccole vignette quadrate (chiamate insert panel); come all'interno di una scacchiera, queste piccole porzioni di racconto evidenziano dettagli minuziosi, soffermandosi su oggetti, espressioni, gesti, enfatizzati nella loro potenza comunicativa.
Dopo aver visto il pilot, possiamo dirvi che anche questa peculiarità è stata tradotta su schermo. Lo squallore di casa Barnes viene messo in risalto da primi piani stretti su muri scorticati, tazze sporche, cartoni abbandonati; lo stesso vale per l'irriconoscibile Joshua, bambino posseduto. Il suo sguardo, i suoi sorrisini inquietanti e il suo vezzo di grattarsi di continuo per combattere un prurito perenne sono particolari che emergono in modo disturbante. Speriamo che la regia della serie continui ad essere così penetrante e attenta.
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4. Alla scoperta del dolore
Abbiamo detto che Outcast è soprattutto la storia di Kyle Barnes. Attorno a lui gravitano affetti lontani, ma mai dimenticati, traumi passati ma ancora vividi nella memoria. Allo stesso tempo però, il protagonista è circondato da un mistero ancora da scoprire: perché il Male lo insegue da una vita? Perché i posseduti sembrano perseguitarlo ma anche temerlo? L'interesse nei confronti della storia nasce proprio da questo doppio filo narrativo che si avvolge attorno a Kyle e al lettore numero dopo numero. Da una parte emerge il desiderio di conoscere il suo vissuto, cercando di capire cosa lo abbia esiliato in questo tormento solitario, dall'altra c'è la voglia di capire cosa leghi Kyle a queste opprimenti forze demoniache. Outcast percorre questa strada a doppia corsia che sembra partire e condurre solo e soltanto verso lo stesso punto: il dolore.
5. L'orrore vero
Ad un primo sguardo, sembra l'ennesimo ritorno di un grande classico dell'horror: esorcismi, padri spirituali e crocifissi sulla fronte di indemoniati. Ad un primo sguardo Outcast è una serie di genere che parla di un Male da combattere. Un male beffardo perché in grado di insinuarsi in chiunque, in qualsiasi momento, come un veleno contagioso per il quale non esiste antidoto. Ma la verità è un'altra, e rappresenta la vera grandezza di Outcast, perché Kirkman lo ha fatto di nuovo. Ancora una volta, come per gli zombie di The Walking Dead, per il buon Robert il mostro è soltanto un pretesto per raccontare l'orrore umanissimo delle persone, la dannazione di cui la gente è capace anche senza volerlo.
Ed è per questo che Outcast limita il più possibile momenti esoterici troppo sopra le righe a favore di situazioni credibili, accessibili, vere, ambientate negli interni delle case, mentre il suo dramma si compie tra dispense in cucina e camerette, dietro armadi e sotto i tavoli. Qui non c'è un male che si sceglie, ma un Male da cui si viene scelti, in maniera imprevista e imprevedibile. Outcast parla soprattutto di una cosa: racconta di mamme, mogli, figli, padri e amici che, di colpo, sono irriconoscibili. Perché, in fondo, c'è soprattutto una cosa che ci fa davvero tanta paura: veder cambiare le persone che amiamo e non vederle tornare mai più.