Recensione Non aprite quella porta (2003)

Nispel è riuscito, adeguando il tutto ai nostri giorni, a catturare e ricreare almeno in parte quello spirito del film di Hooper che regalava al tutto quell'aspetto insano, malato, decadente, organicamente in dissoluzione che tanto era importante e caratteristico.

Orrore@terzomillennio

Dover parlare di un remake di una pellicola che è giustamente considerata di culto e che ha segnato la storia del cinema horror come Non aprite quella porta - diretto nel 1974 da Tobe Hooper - è un'operazione che pone di fronte ad una serie d'interrogativi di carattere filologico e critico. Ci si deve chiedere se e fino a che punto è necessario/legittimo valutare il film che Marcus Nispel ha diretto in relazione a quello di Hooper; quali siano gli spazi o le possibilità per considerare questo film come qualcosa di completo di per sé stesso, senza dover sempre ed in ogni caso fare riferimento all'originale. Nel caso specifico, considerando soprattutto le premesse del film di Nispel, crediamo che il confronto con l'originale sia qualcosa di assolutamente imprescindibile, ma che non deve essere un chiave di lettura unica, univoca e - soprattutto - dettata da integralismi di tipo "ideologico" che altrimenti potrebbero limitare una valutazione seria e per quanto possibile oggettiva della materia filmica che ci si trova di fronte.

Non aprite quella porta versione 2003 inizia con un richiamo fedele e dichiarato al film di Hooper, mostrando quelle stesse immagini "filmate" con cui si apre il film del 1974, con lo stessa introduzione letta dalla voce fuori campo che introduce le vicende cui si troveranno di fronte I 5 ragazzi protagonisti del film. Ma dopo questa apertura "filologicamente corretta", attraverso situazioni ed eventi il film fa capire da subito che il suo rapporto con l'originale è da considerarsi sotto forma di una forte ispirazione tematica ed estetica, ma non come un modello da ricalcare pedissequamente. Questo fatto rappresenta al tempo stesso un punto debole ed un punto di forza per Marcus Nispel, che così facendo limita e contemporaneamente amplifica la possibilità di attacco di quanti non possono o vogliono prescindere da un confronto tra le pellicole: lo spazio di libertà narrativa che il regista si ritaglia è infatti tale da dare la possibilità di dire "il mio film è qualcos'altro", ma anche da rendere più probabile il rischio di scivolare in terreni che fanno ancor di più risentire gli appassionati del genere e dell'originale.
E quindi, andiamo a vedere come ed in cosa il confronto con l'originale fa perdere o guadagnare punti al film di Nispel, che nel bene e nel male rispecchia dal punto di vista estetico, ideologico e cinematografico gli anni in cui è stato realizzato, così come il film di Hooper rispecchiava profondamente gli anni Settanta degli Stati Uniti.
Nispel ha scelto di ambientare il suo film negli stessi anni Settanta che sono ritratti da Hooper, ma invece del realismo naturalista dell'originale, propone una visione di quel periodo estremamente stereotipata e "contemporanea": contrariamente ai protagonisti di quello di Hooper, i ragazzi del film di Nispel sono quasi degli hippy, fumano marijuana ed esplicitano quella promiscuità sessuale che nel film del 1974 era solo suggerita, sembrano tutti modelli di una delle tante aziende che oggi ripropongono un abbigliamento "vintage" ispirato ai Seventies. Questa visione, pur non compromettendo nulla di fondamentale dal punto di vista cinematografico, è esemplificativa di tutta un'estetica piuttosto modaiola che pervade il film, che - specialmente nella fotografia - avrebbe guadagnato molto nell'adottare uno stile meno patinato. Ne avrebbe guadagnato perché invece dal punto di vista scenografico e narrativo, Nispel è riuscito, adeguando il tutto ai nostri giorni, a catturare e ricreare almeno in parte quello spirito del film di Hooper che regalava al tutto quell'aspetto insano, malato, decadente, organicamente in dissoluzione che tanto era importante e caratteristico. Ed insieme a questo lato visivo, Nispel è stato in grado di applicare al suo film almeno una parte di quella rabbia e quell'aggressività che è stata raccontata in maniera tanto efficace nel 1974: una rabbia, una malsanità, una depravazione che non solo viene trasmessa attraverso dettagli visivi e scenografici, ma anche attraverso un'esplicitazione della violenza, del sangue e della carne che in periodi politically correct come quelli che viviamo attualmente ad Hollywood è sicuramente da segnalare come un punto a favore del film di Nispel.

Purtroppo però c'è da notare che questa esplicitazione non riguarda solo gli aspetti più gore del film, ma viene applicata (in modo ahinoi assai contemporaneo) anche al resto del film. È probabilmente a causa di quest'ansia ahinoi tutta contemporanea che impedisce di suggerire e non mostrare, raccontare ma non necessariamente spiegare, intricare ma non necessariamente risolvere che nel Texas Chainsaw Massacre versione 2003 viene commesso quello che dagli integralisti dell'horror è considerato come un sacrilegio e che è comunque un grandissimo errore, ovvero il dare un nome, un volto ed una "profonda" motivazione psicologica a Leatherface.
E forse a causa della stessa ansia d'esplicitazione, il film del 2003 "guadagna" un aspetto che nel film di Hooper non era quasi presente e che segna una delle maggiori differenze tra originale e remake, una differenza che regala personalità al remake e a nostro giudizio lo rende apprezzabile: nel TCM del 1974 l'orrore, la paura pervadevano tutto il film in maniera aspra ma anche sottile ed immanente, per motivi estetici e tematici tutti legati alla realtà del periodo; più che una paura dovuta alla suspense si trattava di un senso d'orrore nato dalla repulsione (in questo assolutamente positiva) per un'esplicitazione tanto sfacciata degli orrori che si nascondono nella natura umana. Il film di Nispel, che come detto non vuole essere copia fedele ma omaggio al film cui si è solo ispirato, è invece uno di quei film che fanno anche saltare sulla poltrona, e lo fanno in maniera del tutto efficace: al richiamo dell'orrore e del perverso attraverso le scenografie che abbiamo citato, si aggiungono insomma alcuni sani spaventi dovuti al "Bu!" cinematografico di questo o quel personaggio - rispecchiando anche in questo lo spirito dei tempi in cui è stato realizzato. Altro punto a favore del film di Nispel è stato poi quello del saper fare quello che nel 90% dei casi è stato fatto nel cinema horror contemporaneo: quello d'inserire i 5 protagonisti in una situazione dalla quale per ovvi motivi narrativi non si possono allontanare, ma di rendere questo loro permanere in una situazione di cosciente pericolo assolutamente plausibile. Detto in soldoni: non viene da gridare ai personaggi i classici: "Idioti, non entrate!" oppure "Cretini, ma andate via!".

Nel complesso quindi, considerando i pregi e i difetti del film che abbiamo illustrato, e non volendo cadere nell'errore di una lettura eccessivamente ideologica di questo remake, Non aprite quella porta del 2003 è un film che tutto sommato diverte e convince nel corso dei suoi primi due atti (soprattutto nel primo). Le cose però peggiorano decisamente nel terzo e conclusivo atto della narrazione: il film - che paragoni con l'originale a parte si era distinto per rabbia e perché no qualità dalla gran parte della produzione horror hollywoodiana recente - scivola lentamente nello stereotipo di genere contemporaneo che come detto prima aveva fino ad allora evitato, allungando in maniera sterile e poco efficace la fuga della protagonista, allontanandosi decisamente dalla asciutta sobrietà del finale dell'originale e soprattutto facendo crollare nello spettatore quel carico di tensione che si era lentamente ma inesorabilmente costruito con la visione fino a quel momento.
Una notazione finale la meritano sicuramente Robert Lee Ermey, efficace come al solito nel ritratto metà ironico metà disgustoso di un ambiguo sceriffo, e soprattutto l'attrice che ha ereditato il ruolo della "mitica" Marilyn Burns: una Jessica Biel, che oltre alla sua indiscutibile bellezza è stata capace di portare in scena sentimenti veri ed intensi, ritraendo lo shock, il terrore, la determinazione ed il panico in maniera del tutto convincente.
In conclusione, bilanciando i pregi e i difetti esposti in queste righe, TTCM 2003 è un film horror nel complesso piacevole ed abbastanza convincente, anche se assolutamente non privo di difetti, soprattutto se comparato alla versione 1974. Ma, come si dice, in una terra di ciechi, anche l'orbo è re.