Orgoglio di genere
E' innanzitutto una scommessa, quella di Gabriele Albanesi e di questo suo esordio già chiacchieratissimo (almeno nei circuiti più attenti alle produzioni indipendenti nostrane): reintrodurre nel nostro paese una cultura e una prassi cinematografica "di genere", che non si vergogni del suo sguardo cinefilo (citando a più riprese e senza problemi i classici al di qua e al di là dell'oceano), e scardinare con una radicalità visiva a cui è impossibile restare indifferenti la convenzionalità e la piattezza che ancora attanagliano gran parte del nostro cinema. Il tutto affidandosi all'autoproduzione, all'HDV e uno staff tecnico composto da giovani entusiasti (a cui si aggiunge un veterano come Sergio Stivaletti), nella più totale libertà creativa. Se la scommessa del giovane regista romano (al suo primo lungometraggio dopo i tre precedenti corti) sia vinta sul piano "politico", se davvero Il bosco fuori potrà fungere in qualche modo, nel suo piccolo, da "apripista" (insieme a prodotti analoghi quali Piano 17, di quei fratelli Manetti qui presenti come co-produttori), sarà solo il tempo a dirlo; ma limitandosi all'aspetto cinematografico dell'opera, bisogna dire che questo esordio funziona più che bene, nonostante i limiti imposti dal formato e alcune ingenuità di scrittura, in fondo perdonabili in un'opera prima.
Quello che innanzitutto colpisce de Il bosco fuori è la sua natura, come si diceva, orgogliosamente cinefila: Albanesi cita a piene mani dall'horror indipendente americano e dai classici italiani di qualche decennio fa, mettendo nel frullatore della sua passione cinefila Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, L'ultima casa a sinistra, un bel po' di Argento, Bava e Fulci, e un pizzico di Tarantino. Inoltre, sarà probabilmente un caso visto che il regista ha dichiarato più volte di non amare il cinema orientale, ma chi scrive non ha potuto non vedere in una delle ultime scene (effettivamente più scioccante di tutti gli ettolitri di sangue che la precedono), un'eco della visionarietà estrema e disturbante di un Takashi Miike. Una cinefilia che potrebbe apparire fine a se stessa, un po' autoreferenziale nel suo strizzare l'occhio all'appassionato (principale destinatario del prodotto), ma che acquista una sua precisa valenza estetica se rapportata alla realtà del panorama nostrano, e al ghetto in cui è ormai da anni relegato il cinema di genere (horror in primis). Il secondo elemento notevole è l'estrema graficità del film: Stivaletti, probabilmente, non esagerava quando ha dichiarato di non aver mai usato così tanto sangue in un film. Una scelta che ha anch'essa il crisma della "dichiarazione di guerra" nei confronti di certo cinema italiano, ma che, anche alla luce del citazionismo di cui sopra, appare infinitamente più giustificata rispetto a quella vuota, inconsistente new wave gore che coinvolge tanto cinema americano attuale (vedere a tal proposito l'orripilante Captivity).
Albanesi sa girare, ha padronanza tecnica e un ottimo senso del ritmo e della costruzione della scena: momenti come l'aggressione dei teppisti ai danni della coppia, la prima scoperta della reale "natura" dei salvatori, la fuga nel bosco e la già citata sequenza verso la fine del film, hanno un notevole impatto visivo e colpiscono senza fronzoli l'occhio e lo stomaco. C'è un interessante senso dello spazio filmico e della sua utilizzazione, sia all'interno della casa, inquietante contenitore che riversa a poco a poco i suoi orrori sui protagonisti, sia nel minaccioso bosco circostante. La fotografia si appropria bene delle caratteristiche del digitale, con interessanti giochi cromatici e di luce, mentre la colonna sonora, nella sua "classicità", gronda suggestione e senso di inquietudine.
Poi non mancano i difetti, certo, innegabili e in parte legati al budget, alla natura "borderline" del prodotto, alle caratteristiche intrinseche di un esordio; non per questo, tuttavia, meno da sottolineare, specie laddove era possibile, con un po' di attenzione, evitarli. La recitazione è spesso sotto il livello di guardia, e se alcune figure (prime fra tutte quelle dei tre "coatti") sono costruite in modo volutamente caricaturale, la loro resa non può non risultare deludente, a tratti forzata e, alla lunga, stancante. Ci sono varie ingenuità di sceneggiatura sparse qua e là, dialoghi spesso poco brillanti, e sequenze "pensate" in modo non proprio impeccabile (vedi la prima fuga della giovane protagonista, che culmina nel comunque ottimo inseguimento nel bosco).
Complessivamente, ci sentiamo comunque di sostenere l'operazione dell'esordiente Albanesi, per la sua idea di cinema forte, per il coraggio nel proporre, nel 2007 in Italia, un film così, per l'evidente sforzo nel confezionare, nonostante i limiti di budget, un prodotto realizzato con competenza e professionalità. E, soprattutto, per la passione e l'autentico entusiasmo cinefilo che trasudano, anche nei difetti, da ogni singola sequenza: speriamo solo di poterne vedere ancora, nei prossimi anni. Magari (un sogno?) in una dimensione produttiva più rilevante.
Movieplayer.it
3.0/5