"Albert, quando sono venuto da te con quei calcoli, abbiamo pensato di poter avviare una reazione a catena che avrebbe distrutto il mondo intero." "Me lo ricordo bene. Allora?" "Credo che sia accaduto."
Fervidi applausi, esclamazioni di giubilo e un'apoteosi di bandiere a stelle e strisce accolgono le parole di Julius Robert Oppenheimer mentre, al cospetto della comunità di Los Alamos, si lancia in un discorso apologetico sulla bomba atomica, esprimendo il proprio rammarico che non sia stata completata abbastanza in fretta per essere adoperata contro la Germania. Paradossalmente, il tòpos dell'apoteosi dell'eroe ci appare come il suo drammatico rovescio: l'entusiasmo dello scienziato è legato all'esaltazione di uno dei capitoli più tragici nella storia del ventesimo secolo. Se non fosse che, nel profluvio delle ovazioni, il trionfalismo dell'uomo di colpo si incrina, mentre alle immagini della folla in festa si sovrappone un terrificante presagio di morte. È uno dei rari squarci visionari nel rigore narrativo di Oppenheimer, e non a caso risulta uno dei momenti più angosciosi nelle tre ore di durata del film.
J. Robert Oppenheimer e il "dono del fuoco"
La scena in questione è collocata a breve distanza da un'altra sequenza emblematica: la ricostruzione del test nucleare Trinity, il cui impatto emotivo sancisce la climax della prima metà dell'opera di Christopher Nolan, il fatidico traguardo del famigerato Progetto Manhattan. Nel mezzo, un'ellissi il cui peso è destinato però a gravare su tutto il resto del racconto: l'esplosione delle bombe atomiche soprannominate Little Man e Fat Boy sulle città di Hiroshima e Nagasaki, ultimo atto della Seconda Guerra Mondiale. In Oppenheimer, che si attiene quasi sempre alla prospettiva del personaggio eponimo, non assistiamo alla distruzione delle due città giapponesi: si tratta di un orrore letteralmente 'osceno', che si consuma al di fuori del nostro sguardo, e che tuttavia è impresso a fuoco nell'immaginario del ventesimo secolo, con il fungo atomico eletto a manifestazione suprema dell'apocalisse della civiltà contemporanea.
Lo spazio compreso fra Trinity, ovvero il "dono del fuoco", e Hiroshima e Nagasaki corrisponde, su un piano allegorico, al passaggio dalla vittoria di Prometeo alla sua dannazione. American Prometheus è infatti il titolo originale della biografia di J. Robert Oppenheimer, pubblicata nel 2005 da Kai Bird e Martin J. Sherwin, insignita un anno più tardi del premio Pulitzer e adattata da Christopher Nolan per il suo opus numero dodici, uno dei tasselli più acclamati nella carriera del regista inglese. Oppenheimer, interpretato da Cillian Murphy, è il pioniere che ha saputo penetrare i segreti della natura per conferire all'umanità un potere di proporzioni inimmaginabili; ma se il dono di Prometeo era necessario alla sopravvivenza della specie umana, quello di Oppenheimer è l'ordigno in grado di provocarne l'annientamento. È qui che l'allegoria muta di significato, ed è questo il presupposto su cui Nolan innesta il conflitto alla radice del film.
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La caduta dell'eroe
Prometeo, responsabile della salvezza dei propri simili, avrebbe passato l'eternità incatenato a una rupe; J. Robert Oppenheimer al contrario è celebrato come un eroe nazionale, finisce sulla copertina di Time e viene accolto in tripudio alla Casa Bianca, sebbene il Presidente Harry Truman (un mimetico Gary Oldman) reagisca con insofferenza alle remore dello scienziato. Perché nel frattempo, Nolan ci pone di fronte a un quesito fondamentale: chi è veramente Oppenheimer? La stessa persona che, poco prima, dibatteva con lo Stato Maggiore statunitense su come sfruttare al massimo il potenziale delle bombe atomiche ora manifesta una netta contrarietà alle sperimentazioni sulla bomba all'idrogeno e indossa con riluttanza, o forse addirittura con malessere, i panni del genio; al punto da sottoporsi con passiva rassegnazione all'inchiesta condotta nel 1954 dalla Commissione sull'energia atomica a proposito della sua fedeltà agli Stati Uniti e dei presunti rapporti con il Partito Comunista.
L'ambiguità del personaggio, un'ambiguità che trasforma il volto diafano di Cillian Murphy in una maschera di muta inquietudine, è l'elemento-chiave di un film magnifico, che si allontana quanto più possibile dai sentieri dell'agiografia, percorsi invece da altri recenti ritratti biografici nella cornice della Seconda Guerra Mondiale (dall'Alan Turing di The Imitation Game al Winston Churchill de L'ora più buia). Lo smarrimento di Oppenheimer, che sembra quasi voler aderire al ruolo di agnello sacrificale sull'altare del maccartismo imperante, è uno smarrimento al contempo pubblico e privato, storico e universale. In esso si riflette la crisi morale di un singolo individuo, ma di rimando anche quella di un paese che, dopo essersi autoproclamato "arsenale della democrazia" e aver guidato la lotta contro il più nefasto dittatore del secolo, vede incrinarsi la dicotomia manichea su cui aveva innestato il proprio anelito di grandezza.
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Il dilemma di un distruttore di mondi
Ma l'avvolgente complessità della pellicola di Nolan si estende ad ulteriori livelli di lettura: si tratta di una vicenda illuminante rispetto alle dinamiche della prima fase della Guerra Fredda, dalla "caccia alle streghe" nell'America del maccartismo al fragile equilibrio della "politica del terrore" fra USA e URSS. Ma al di là del contesto specifico, la parabola di Oppenheimer solleva dilemmi relativi all'essenza stessa dell'essere umano, al nostro rapporto con il potere e ai nostri pallidi tentativi di giustificarne le contraddizioni e le storture. A partire da quel terribile interrogativo che trascende il mutare della storia, per riproporsi ineluttabile da un'epoca all'altra: il fine giustifica i mezzi, perfino i più atroci? L'aspirazione a "una pace che l'umanità non ha mai visto" può realizzarsi al costo di centinaia di migliaia di vite? Se in prima istanza Oppenheimer è l'alfiere di un feroce utilitarismo imposto a scapito della popolazione giapponese, il suo conseguente corto circuito etico diventa il cuore pulsante del film.
Le questioni morali correlate al raggiungimento di un bene superiore sono un tema ricorrente nel cinema di Christopher Nolan, a partire da Il cavaliere oscuro e dalla sua rielaborazione del concetto di eroismo, ma in generale sono legate a doppio filo all'atmosfera di precarietà della Guerra Fredda: basti ricordare il caso esemplare di Ozymandias e del suo sanguinario progetto per la pace mondiale in Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, altro capolavoro partorito all'ombra della minaccia di un'apocalisse nucleare. In Oppenheimer, attraverso i codici del dramma giudiziario, la granitica certezza del protagonista si sgretola negli spettrali occhi celesti di Cillian Murphy: lo specchio di un silenzioso calvario a cui il "padre della bomba atomica" darà voce al cospetto del suo mentore Albert Einstein. Un rapido scambio di battute, quasi impercettibile (ne ascolteremo il contenuto soltanto nella scena finale), in cui è racchiuso il segreto più doloroso: la cognizione dell'orrore.