È impossibile non collegare Julie Delpy al personaggio di Celine nella Before Trilogy di Richard Linklater, questo anche perché l'ha girata (e anche co-sceneggiata insieme al regista) nell'arco di quasi vent'anni tra il 1995 e il 2013. Ora cinquantenne, ha deciso di raccontare la propria generazione di donne sull'orlo di una crisi esistenziale, parafrasando Almodovar, e metterla in scena nei 12 episodi della sua prima esperienza televisiva, come spiegheremo in questa recensione di On The Verge, dal 7 settembre su Netflix.
Julie & Justine
Poco pubblicizzata - ma il problema dell'eccessiva mole di contenuti che arrivano sulle piattaforme e su Netflix in particolare è ben noto oramai - On The Verge è scritta diretta e interpretata dalla stessa Delpy insieme ad altre tre attrici che vogliono raccontare la mezza età senza peli sulla lingua e allo stesso tempo con rispetto e dolcezza. Julie Delpy interpreta Justine, che in parte è un suo alter ego dato il bilinguismo e l'essere naturalizzata statunitense. La sua Justine, chef di un ristorante di successo, è arrivata a Los Angeles per trovare fortuna anni prima, portandosi dietro il marito architetto che ha accettato di seguirla oltreoceano avendo anche un figlio, un bambino dolce e molto perspicace. Proprio la molteplicità di lingue è uno degli aspetti più attuali che mette in scena la serie, distinguendosi così dai vari show che strizzano l'occhio a Sex and the City, insieme alla maternità.
Tutte e quattro le protagoniste sono madri, ognuna a modo proprio, con diverse sfaccettature e un diverso modo di affrontare il rapporto coi propri figli, ma sempre con dolcezza. Justine è messa continuamente alla prova dalle domande del figlio, ed è frustrata perché sente di doversi un po' rimpicciolire vicino al marito, che non sta riuscendo a trovare un appalto. La sua migliore amica è interpretata da Elisabeth Shue, l'altra attrice più conosciuta delle quattro, nei panni di una stilista di successo, ereditiera, perennemente su di giri con un figlio pre-adolescente che sta scoprendo la propria identità sessuale e un marito che vorrebbe che lei lo coccolasse di meno. Alexia Landeau è una madre single con tre figli avuti da tre uomini diversi, uno solo dei quali paga gli alimenti, ed è perennemente al verde. Chiude il quartetto Sarah Jones, afroamericana con un marito bianco che lavora in campo tecnologico, nei panni di una madre e moglie in cerca di lavoro, costantemente sull'orlo di una crisi è un po' melodrammatica. Come quando conobbe le altre tre al famoso Capodanno del Millennium Bug 1999, e da lì nacque un'amicizia che perdura negli anni. Ciliegina sulla torta la partecipazione di Giovanni Ribisi nei panni del socio di Justine e amico di Ell (Landeau).
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Il segno delle quattro
Ognuna di loro vive a modo proprio la mezza età, tempo di bilanci, la propria maternità e il rapporto con i propri figli. Figli della Generazione Z e quindi molto più sensibili e attenti a svariati argomenti di attualità. Delpy tratteggia in modo onesto e con un'ironia tutta sua queste donne di oggi, nella Los Angeles prima della pandemia (che farà breccia nelle loro vite sul finire e si prospetta come un possibile argomento in un'eventuale seconda stagione). Sarebbe forse stato interessante ai fini della trama vedere una non mamma per scelta fra loro per bilanciare e variegare gli argomenti anche di dibattito e scontro tra i personaggi. Tra dolcezza, schiettezza anche su argomenti come sesso, identità LGTBQIA+ così come la fama sul web, Delpy riesce a trovare un proprio stile di scrittura e registico, alternando immagini naturalistiche che dovrebbero rappresentare una metafora di quanto accade ai personaggi, ma non sempre ci riescono.
Il difetto è però il farlo dal secondo episodio, estremamente divertente che gioca sulla commedia degli equivoci e che riguarda indirettamente il nostro Paese. La premiere è invece una puntata che funziona poco e non mostra il vero potenziale dello show, quindi il consiglio è di guardare almeno anche la seconda per testare il vostro reale gradimento su questa serie. Serie che riesce a crearsi una propria identità tra le tante dramedy al femminile ma ricade comunque in alcuni errori, perplessità e ridondanze nel finale. Fil rouge che accomuna un po' Justine a Carrie è la scelta di iniziare e concludere quasi tutti i 12 episodi con un voiceover mentre scrive al PC un libro di ricette che le hanno commissionato, che deve essere anche un "libro di vita" e questo la mette in difficoltà. Justine non sa bene come costruirlo ma alla fine sarà proprio il libro a darle la spinta per non finire nell'abisso della crisi esistenziale, e altri progetti-epifanie accadranno anche alle altre protagoniste. Tutte loro sono al limite come dice il titolo On the Verge, sono già realizzate, non in cerca dell'amore o del successo ma potrebbero distruggere ciò che hanno come farlo rinascere, la vera domanda è quale strada sceglieranno?
Conclusioni
In chiusura della recensione di On The Verge, ci possiamo dire felici di ritrovare Julie Delpy sia davanti che dietro la macchina da presa dopo la Before Trilogy, raccontando con onestà, dolcezza e ironia la generazione delle 50enni di oggi. Una serie che riesce a costruirsi una propria identità ma a partire dal secondo episodio, mostrando diverse sfaccettature dell’essere donne realizzate e madri, per poi perdersi nuovamente nel finale.
Perché ci piace
- Julie Delpy dimostra di aver raggiunto la maturità necessaria per costruire un proprio universo
- La serie riesce a distinguersi nel panorama delle dramedy al femminile
- Puntare il focus sul loro essere al limite e sulla maternità
- Il voiceover si dimostra funzionale al percorso di Justine
Cosa non va
- Il primo episodio non è una buona presentazione per la serie perché non mostra le sue potenzialità
- Il finale è un po’ ridondante