Interpretare le brave ragazze era difficile negli anni Trenta, quando la moda era di interpretare cattive ragazze. In realtà io penso che interpretare cattive ragazze sia una noia; ho sempre avuto maggior fortuna con i ruoli da brava ragazza perché richiedono di più da un'attrice.
Il portamento composto e l'ineffabile dolcezza del sorriso, contrapposti all'espressività irrequieta della cugina Scarlett (alias Rossella). Lo stupore radioso mentre corre incontro al marito Ashley, di ritorno dal fronte. La serenità malinconica delle ultime parole pronunciate sul letto di morte. Sono le immagini che, da otto decenni, accompagnano il nome di Olivia de Havilland nella memoria collettiva: quelle dell'amorevole Melania Hamilton di Via col vento, l'archetipo della "brava ragazza" nel cinema classico hollywoodiano, in virtù di quel gigantesco fenomeno culturale e mediatico che è stato Via col vento.
Ma per quanto la sua reputazione sia legata soprattutto al ruolo di Melanie (Melania nell'edizione italiana del film), dal 1939 in poi Olivia de Havilland si sarebbe dimostrata una delle attrici più versatili della propria generazione, alternando il modello delle fanciulle timide e mansuete - una per tutte, la Catherine Sloper de L'ereditiera - a personaggi ben più ambigui e, in taluni casi, addirittura 'sinistri'. Una duplicità che ha contraddistinto l'intera carriera della più longeva fra i divi della Golden Age di Hollywood, nata a Tokyo da genitori inglesi il 1° luglio 1916 e morta il 25 luglio 2020 nella sua amata Parigi, poche settimane dopo aver compiuto 104 anni.
La 'brava ragazza' della Warner Bros
E per quanto la sua Melanie possa essere mite e comprensiva, la vita e la professione di Olivia de Havilland sono sempre state segnate da un'incrollabile fermezza e dal coraggio nel mantenere fede a se stessa e alle proprie aspirazioni: fin da quando a diciotto anni, di fronte al divieto del patrigno di intraprendere l'attività di attrice, decide di lasciare la famiglia pur di accettare la parte di Elizabeth Bennet in una produzione scolastica di Orgoglio e pregiudizio a Saratoga, in California. Nel 1934, la sua performance in Sogno di una notte di mezza estate conquista il regista austriaco Max Reinhardt, che le fa ottenere un contratto dalla Warner Bros e l'anno seguente le affida la parte di Ermia nella sua trasposizione cinematografica della commedia di William Shakespeare: è nata una stella.
A pochi mesi di distanza da Sogno di una notte di mezza estate, la Warner Bros decide di sfruttare l'eleganza aristocratica della sua nuova ingénue in un'altra produzione in costume, Capitan Blood, classico d'avventura diretto da Michael Curtiz, in cui una Olivia de Havilland non ancora ventenne divide lo schermo con il popolarissimo Errol Flynn. Seguiranno da lì a breve nuovi grandi successi: nel 1936 i drammi a sfondo storico Avorio nero di Mervin Le Roy e La carica dei seicento di Curtiz, che riunisce la de Havilland con Errol Flynn, ma soprattutto, nel 1938, il campione d'incassi La leggenda di Robin Hood, sempre per la regia di Curtiz, in cui la Warner Bros torna a capitalizzare la fortunatissima accoppiata Flynn/de Havilland. Nel 1939, i due lavorano insieme pure nel western Gli avventurieri e nel dramma storico Il Conte di Essex (in totale gireranno otto film).
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Via col vento e la 'cugina buona' di Rossella
Ma il 1939, per Olivia de Havilland, sarà in primo luogo l'anno di Via col vento, il kolossal di Victor Fleming (e di George Cukor) con Vivien Leigh e Clark Gable, tratto dal best-seller di Margaret Mitchell. Per la ventiduenne Olivia, determinata ad aggiudicarsi la parte di Melanie Hamilton, si tratta di vincere un'altra sfida: persuadere il mogul Jack L. Warner a 'prestarla' al rivale David O. Selznick, che aveva pensato a lei proprio per Melanie; la de Havilland riuscirà infine a spuntarla, renderà un indelebile ritratto dell'angelica cugina di Scarlett O'Hara e riceverà la nomination all'Oscar come miglior attrice supporter. La Warner Bros punta a capitalizzare quanto più possibile la fama crescente della giovane diva, la quale tuttavia non sempre gradisce i progetti che le vengono assegnati e spesso preferisce lavorare per altri studios.
È il caso de La porta d'oro, dramma romantico della Paramount del 1941, diretto da Mitchell Leisen su un copione firmato anche da Billy Wilder: Olivia de Havilland è Emmy Brown, graziosa maestra in gita scolastica oggetto del tentativo di seduzione del gigolò rumeno Charles Boyer, che punta alle nozze per avere la cittadinanza americana. Alle prese con un ruolo che le calza a pennello, la de Havilland si guadagna la nomination all'Oscar come miglior attrice; quell'anno la statuetta verrà assegnata a sua sorella Joan Fontaine per Il sospetto. Il rapporto fra Olivia e Joan Fontaine appartiene alla mitologia della Hollywood classica: sulle tensioni fra le due sorelle sarà costruita infatti un'aura leggendaria (a cui però contribuisce non poco una maliziosa tendenza a ricamare sulle rivalità femminili).
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In guerra contro la Warner Bros
In meno di un decennio nel mondo del cinema, Olivia de Havilland può vantare quasi una trentina di pellicole, quasi tutte da protagonista, quasi tutte successi di pubblico (incluso il film più visto di tutti i tempi); eppure sente di poter fare di meglio, di avere un potenziale ancora non sfruttato appieno, mentre i ruoli da ragazza dolce e candida le vanno sempre più stretti. L'attrice, insomma, vuole scegliersi i propri copioni, ma c'è un problema: nel 1943, alla scadenza del suo contratto, la Warner Bros pretende di tenerla al lavoro ancora per sei mesi come risarcimento per i ruoli rifiutati in passato. Bette Davis, sua grande amica, aveva già tentato invano di opporsi a questa clausola; ma la de Havilland non demorde e, con una scelta arditissima per l'epoca, cita in giudizio la Warner Bros.
Nella Hollywood dello studio system, opporsi allo strapotere degli studios significa mettere a repentaglio la propria carriera, perfino se si è una delle star più amate dal pubblico, e rischiare di finire su una "lista nera" a prescindere dall'esito in tribunale. Un esito che, per la de Havilland, si rivela favorevole: con una storica sentenza, la Corte d'Appello della California sancisce i diritti degli attori attraverso la cosiddetta "regola dei sette anni", conosciuta da allora come la Legge de Havilland. Ma Olivia, appunto, pagherà la sua vittoria a caro prezzo: il boicottaggio 'punitivo' da parte degli altri studi hollywoodiani e una pausa forzata dal set lunga quasi due anni.
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La rivincita di Olivia
In tale prospettiva, la vicenda di Olivia de Havilland è paradigmatica dei rapporti di forza nel cinema della Golden Age e ai vincoli a cui erano sottoposti registi ed attori; ma è anche una vicenda a lieto fine, in cui la volontà di rivendicare i propri diritti permetterà alla de Havilland, nella seconda metà degli anni Quaranta, di vivere il periodo professionalmente più ricco, denso e affascinante del suo percorso d'attrice. Un periodo inaugurato, nel 1946, da un contratto con la Paramount e dal ritorno sulla scena con A ciascuno il suo destino, ancora per la regia di Mitchell Leisen: un tipico esempio dei woman's film americani del dopoguerra, con il suo amalgama tra affresco sociale della working class ed elementi melò, tra amori impossibili e figli perduti e ritrovati.
Nella parte di Jody Norris, giovane di provincia - e in seguito sofisticata donna d'affari - alle prese con una serie di drammi personali, la de Havilland ha modo di sfoderare per la prima volta nuovi lati del suo talento e verrà ricompensata con l'Oscar come miglior attrice. È solo l'inizio della sua rivincita: quello stesso anno si confronta con il genere noir con Lo specchio scuro di Robert Siodmak, nel memorabile doppio ruolo di due sorelle gemelle, una innocente e una malvagia, cimentandosi con i panni per lei inediti della dark lady. La passione della Hollywood di allora per la psicologia la porterà, nel 1948, ad offrire un'altra performance magistrale ne La fossa dei serpenti di Anatole Litvak: un viaggio nelle ossessioni di una donna, Virginia Cunningham, impegnata a ricostruire il suo passato mentre è ricoverata in un ospedale psichiatrico. Si tratta di una delle sue prove più intense ed estreme, che le varrà la Coppa Volpi al Festival di Venezia e un'altra candidatura all'Oscar.
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Dall'ereditiera di Wyler alla 'cugina cattiva' di Bette Davis
Nel 1949, a dieci anni da Via col vento, Olivia de Havilland torna ad interpretare una giovane donna di famiglia altolocata e dal carattere docile e ingenuo nell'America dell'Ottocento, ma con un personaggio ben più complesso rispetto a Melanie: Catherine Sloper, protagonista del romanzo Washington Square di Henry James, portato sullo schermo da William Wyler con L'ereditiera. Catherine viene dipinta dalla de Havilland come una figura fragile, insicura, pronta ad abbandonarsi alle lusinghe romantiche di Morris Townsend (Montgomery Clift), spregiudicato arrampicatore sociale, salvo poi scontrarsi con un'amara disillusione e reagire, nell'epilogo, con irremovibile freddezza. Si tratta dell'ennesima punta di diamante nella carriera dell'attrice, che per L'ereditiera vince il Golden Globe e il suo secondo premio Oscar.
Dopo aver prestato il volto alla misteriosa Rachel Ashley, sospettata di essere un'omicida, in Mia cugina Rachele di Henry Koster (1952), melodramma a tinte gotiche da un libro di Daphne du Maurier, Olivia de Havilland diraderà le proprie apparizioni sullo schermo; in seguito, in una Hollywood ancora disinteressata alle attrici oltre la soglia dei cinquant'anni, preferirà dedicarsi alla televisione, prima del ritiro definitivo nel 1988. Di quest'ultimo periodo, però, vale la pena ricordare quantomeno Piano... piano, dolce Carlotta di Robert Aldrich (1964), superbo horror psicologico in cui la de Havilland, ingaggiata per rimpiazzare Joan Crawford, disegna un personaggio di sottile perfidia: Miriam Deering, la subdola cugina della Charlotte Hollis di Bette Davis. Un'altra testimonianza, se mai ce ne fosse bisogno, della versatilità di un'attrice magnifica, la cui filmografia merita di essere riscoperta e rivista ben al di là della cugina Melania.
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