Ha festeggiato settant'anni esattamente un mese fa, il 15 settembre, ma l'età e i capelli grigi non sembrano avergli fatto perdere un grammo della grinta e dell'impegno militante che lo hanno sempre caratterizzato. Lui, Oliver Stone, per oltre un decennio - da quel miracoloso 1986 che lo vide trionfare con Platoon - fra i registi più celebrati d'America, è uno degli ospiti d'onore dell'undicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, dove ha portato la sua ultima fatica, Snowden, in uscita nelle sale italiane il 1° dicembre grazie a BIM Distribuzione.
Ritratto di una delle figure più controverse degli ultimi anni, Edward Snowden, e cronaca dello scandalo che travolse la National Security Agency nel 2013, il film di Stone è stato accolto tiepidamente in patria, dove ha diviso la critica e ha riscosso un modesto successo al botteghino (venti milioni di dollari, a fronte di un budget di quaranta milioni). Ma il regista newyorkese, nel suo incontro con il pubblico venerdì pomeriggio all'Auditorium, non ha parlato affatto di Snowden, concentrandosi invece sui tasselli più conosciuti e gloriosi di una carriera magari altalenante, ma che rimane assolutamente invidiabile e preziosa.
I lati oscuri dell'America
Com'era Hollywood quando hai iniziato la tua carriera?
Salvador aveva dei dialoghi oltraggiosi, e il problema di Hollywood è questo, infatti il film si è attirato molte accuse di misoginia per i suoi dialoghi. Ho sempre avuto problemi con gli studios: Salvador è stato realizzato in maniera indipendente, dopo che gli studios lo avevano respinto per dieci anni. Sono tornato in Salvador con il giornalista al centro della storia del film, Richard Boyle, nel 1985: ci permisero di entrare nel paese solo perché mi rispettavano in quanto sceneggiatore di Scarface, un film che i guerriglieri amavano molto. Era un periodo in cui la mia personale visione stava cambiando molto: considerare il Vietnam ad un'età più matura è stato scioccante. Era chiaro che gli USA erano dal lato sbagliato della Storia e si stavano rendendo complici di atti orribili, quindi le mie simpatie andavano tutte ai ribelli.
Pensi che la figura di Gordon Gekko in Wall Street sia stata profetica a proposito dell'America di oggi?
Storicamente, gli anni Ottanta di Ronald Reagan sono stati un'era di deregolamentazione della finanza, e uomini com Gekko usavano ogni mezzo pur di arricchirsi, inclusi mezzi illeciti. Questi uomini erano interessati soprattutto a prendere possesso delle aziende attraverso le azioni. Il capitalismo è molto pericoloso, può diventare una bestia e distruggere tantissimi posti di lavoro, come accade in questo film. I numeri citati in Wall Street erano già altissimi, ma oggi le cifre che circolano nell'alta finanza sono diventate ancora più assurde. La gente di Reagan ha iniziato a distruggere la middle class americana in nome del profitto, e il profitto ci ha portato dove siamo ora, in una situazione terribile per l'economia. Donald Trump è un frutto del malcontento della middle class, è un rappresentante della rabbia della gente. Quando ho girato il sequel di Wall Street sono rimasto scioccato dalla Wall Street coeva e dalle compagnie "troppo grandi per fallire". Wall Street oggi non è più la Wall Street dei tempi di mio padre; penso che oggi dovremmo avere più compagnie indipendenti e più rispetto per il lavoro. Mi mancano molto i vecchi tempi.
Cosa pensi della frase di Gekko "L'avidità è buona"?
Il capitalismo è basato sul profitto. Wall Street favorisce gli investimenti, perché il suo obiettivo è fare soldi. In America però siamo troppo avidi, abbiamo perso qualunque equilibrio... dunque no, l'avidità non è buona.
Presidenti di ieri, di oggi... e di domani
JFK - Un caso ancora aperto è un film estremamente complesso a livello di messa in scena: come mai?
La sceneggiatura era estremamente frammentaria: era una storia raccontata da vari punti di vista, come in Rashomon. Volevamo dimostrare come il rapporto della Commissione Warren fosse pieno di buchi. Ho pensato di trasformare il film in una sorta di "football politico", ma è stato difficilissimo realizzarlo: i media in America sono molto mainstream e se sostieni certe posizioni tendono a farti sembrare un pazzo. Noi, come popolo, tendiamo ad accettare qualunque cosa: dalle bugie sull'omicidio di Kennedy alle violazioni della nostra privacy. Grazie a JFK sono stati compiuti molti passi avanti nell'indagine sulla morte di Kennedy: la storia americana è piena di segreti e di documenti incredibili, per esempio sulla crisi dei missili di Cuba.
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Sei d'accordo con l'ipotesi dell'esistenza di un cosiddetto "governo invisibile"?
I Presidenti vanno e vengono, ma sembra esserci un'unica direzione nel loro operato, dominata dal denaro, dal controllo di Wall Street e dei corporate media... molte persone si riferiscono a questa situazione come a un "governo segreto" o come a un sistema di sicurezza nazionale che però, dopo l'11 settembre, è andato molto oltre i suoi obiettivi dichiarati.
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In Nixon, come mai ha scelto un approccio così empatico nei confronti del protagonista, consierato fra i peggiori Presidenti americani di sempre?
Essere empatico vuol dire, per me, cercare di dare il meglio in qualità di sceneggiatore. Richard Nixon era un uomo intelligente che aveva molto sofferto, aveva perso il fratello da giovane. Non sono d'accordo con la politica di Nixon, ma penso proprio che la sua sofferenza fosse reale, e il suo miglior discorso è stato quello delle sue dimissioni. Era un uomo insicuro; oggi sarebbe considerato un democratico liberale. Ho fatto un film su George W. Bush in cui ho provato ad essere empatico verso di lui, così come per Snowden, il quale mi ha raccontato la propria storia. E un regista deve sempre narrare la storia di un personaggio senza imporre se stesso. Nel 1947 i repubblicani conquistarono il controllo del Congresso e pensarono che un modo per impedire una nuova crisi economica fosse la Guerra Fredda. Ancora oggi esiste un'enorme rivalità verso la Russia, una rivalità sfociata spesso in azioni illegali: nel nostro paese, è come se avessimo bisogno di avere sempre un nemico da affrontare, dall'Iraq all'Afghanistan. Nixon ha continuato la guerra del Vietnam per due anni, e ha programmato la fine delle ostilità solo a causa delle pressioni della gente. L'Asia non è più stata la stessa dopo i bombardamenti della Cambogia, del Vietnam e del Laos... disgustoso! Nixon ha cessato il conflitto in Vietnam solo perché aveva paura di perdere le successive elezioni. È una situazione ciclica... oggi Donald Trump è dipinto come il "cattivo", mentre Hillary Rodham Clinton è considerata in una luce talmente positiva che potrebbe perfino iniziare una nuova guerra e glielo permetteremmo. George McGovern e Michael Dukakis, candidati eccezionali, persero le elezioni proprio perché avevano sostenuto il pacifismo, mentre la Clinton proviene da un'élite legata ai recenti conflitti.
Attori, cinema e (ancora) politica
In cosa consiste il tuo lavoro con gli attori?
Mi commuovo molto a rivedere Nato il quattro luglio, perché situazioni analoghe continuano a verificarsi ancora oggi, e troppe poche persone protestano contro le guerre. Tom Cruise proveniva da Top Gun, un film filoamericano con un messaggio disastroso, ma si è dedicato totalmente a questo ruolo, con un'enorme disciplina. Per Nato il quattro luglio in pratica ha lavorato gratis, ma il film è diventato un classico. Sul set non sono un dittatore, ripongo invece molta attenzione alla fase preparatoria e provo moltissimo prima di girare. Ciascun attore poi ha il proprio metodo... anche se qualcuno ho dovuto perfino cacciarlo!
Pensi sia importante basarsi su dei personaggi reali per film tratti da storie vere?
Sicuramente aiuta avere dei modelli a cui riferirsi, ma non mi interessano solo i film biografici: amo anche i film di gangster e i drammi sportivi. Ogni maledetta domenica è un "classico film americano", e il discorso di Al Pacino sulla conquista di ogni centimetro potrebbe essere applicato anche alla guerra del Vietnam, alla necessità di aggrapparsi ad ogni centimetro per sopravvivere.
Qual è il tuo film preferito sulla politica americana?
Sette giorni a maggio. È un film sul potere militare e il potere esecutivo che si scontrano. Nel periodo della presidenza di Kennedy il Pentagono voleva attaccare Cuba, e Sette giorni a maggio riassume l'atmosfera di quel periodo: l'America disponeva di una superiorità militare e c'era uno scontro aperto nel dibattito su come comportarsi con l'Unione Sovietica. Molti premevano per entrare in guerra con l'Unione Sovietica e stavano aspettando solo un pretesto: questa era la mentalità all'inizio degli anni Sessanta.