Tutti prima o dopo sono destinati a finire nel tritacarne del remake hollywoodiano, una tendenza che negli ultimi anni non ha risparmiato nessuna cinematografia e spesso con risultati discutibili. Questa volta è toccato a quel piccolo miracolo di humour nero, malinconia e esistenzialismo che fu Mr. Ove, la commedia di Hannes Holm che nel 2017 dopo il trionfo agli Efa sarebbe stata scelta per rappresentare la Svezia agli Oscar nella categoria del Miglior Film Straniero. Ma c'era davvero bisogno di realizzarne un rifacimento? Proveremo a spiegarlo in questa recensione di Non così vicino, il film (in sala dal 16 febbraio) in cui il burbero dal cuore tenero (ma paradossalmente troppo grande per una patologia congenita, la cardiomiopatia ipertrofica), interpretato nell'originale da Rolf Lassgård, ha il volto di Tom Hanks. Una garanzia certo, un tranquillante utile a rassicurare lo spettatore meno avvezzo a nuotare nelle acque poco consolatorie della comicità grottesca e dissacrante del cinema nord europeo. Ma anche uno dei motivi per cui il signor Otto di_ Non così vicino_ nulla aggiunge alla lunga serie di burberi cinematografici che lo hanno preceduto.
La storia resta fedele all'originale
La storia di Non così vicino non tradisce l'originale (tratto a sua volta bestseller svedese L'uomo che metteva in ordine il mondo di Fredrik Backman), lo sviluppo narrativo gli rimane fedele mentre a essere riadattato è il contesto sociale (dalla Svezia alla società americana) e alcuni personaggi secondari che trovano una loro identità. Marc Forster che lo dirige privilegia la dimensione più umana e malinconica, i moti d'animo e la memoria, sacrificando in parte quella più cinica e grottesca che invece caratterizza il bisbetico Mr. Ove della versione svedese. Qui si chiama Otto Anderson, un anziano scorbutico, allergico agli abbracci e ai vicini che non rispettano le regole del quartiere; vive solo e da quando l'amata Sonja se ne è andata ha messo la vita in stand by, perché nulla ha più lo stesso sapore di prima. Come si placa l'assenza di un amore? Otto lo ha imparato bene provando ad aggiustare tutto ciò che non funzione e trasformando gli anni che gli rimangono in una rigida e implacabile routine quotidiana.
A scandire le sue giornate da vedovo ormai in pensione infatti, sono le sue ronde mattutine a caccia dell'idiota di turno che non ha chiuso bene la sbarra di accesso all'abitato, che ha parcheggiato dove non avrebbe dovuto o che non sa fare la raccolta differenziata. Ogni mattina rigorosamente alle 5.30 la sveglia lo scaraventa giù dal letto, poi alle 8.00 subito dopo aver fatto colazione con la solita tazzina di caffè (sempre la stessa, stipata in dispensa accanto a quella di Sonja) esce di casa e comincia il suo giro di ispezione. Piccoli rituali che ben presto dovranno però fare i conti con l'arrivo della nuova vicina, Marisol, una solare ragazza messicana incinta di un terzo figlio e con al seguito marito e altre due bambine. Sarà la sua dirompente e a tratti invadente presenza a mandare a monte i rocamboleschi tentativi di suicidio di Otto e a costringerlo a riaprirsi alla vita.
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Tra redenzione, melò e sarcasmo
La narrazione si sviluppa portando avanti il canovaccio del prevedibile cammino di redenzione, come succedeva in Mr. Ove; rispetto alla versione svedese giocata tutta sul registro della comicità più caustica, la scelta di Forster è quella però di dare maggiore spazio al tema dell'amore perduto e al tempo del ricordo. Li affida ai flashback di Otto illuminati dalla luce di Matthias Koenigswieser, che a più riprese ricostruiscono il passato del protagonista a partire dal primo incontro con Sonja, galeotto il libro Il Maestro e Margherita. Schegge di memoria evocate da piccoli cimeli, sapori e luoghi che si alternano ai siparietti più divertenti, quelli in cui Otto brontola e litiga con tutti: con un clown in ospedale, con la vicina sui tacchi alti e il "cane topo", con il marito di Marisol "uno che confonde una brugola con il grande Lebowski" (il riferimento è al gioco di parole "drugola" invece di "brugola"), con il gatto randagio fuori casa.
Intorno gli si agita un bestiario di tipi umani che proprio non gli va giù e che nel remake statunitense trova una propria collocazione e una caratterizzazione assenti invece nella storia raccontata da Hannes Holm; mentre i personaggi secondari finiscono per costituire quel sottobosco di caratteri su cui poggia una critica sociale tuttavia frammentaria e appena abbozzata, spesso fuori contesto. Il film corre sul doppio binario della commedia amara (per leggere il presente) e del melò (per rappresentare il passato). Per interpretare un personaggio capace di cavalcare tutte le sfumature del racconto Forster chiama Tom Hanks sfruttandone tutta l'arte: il suo Otto ricorderà più il protagonista di Up che non il suo progenitore della versione svedese. Mentre affida al figlio dell'attore, Truman Hanks, il ruolo di Otto da giovane. Spigolature a parte, missione riuscita solo a metà.
Conclusioni
Marc Forster ha più volte dimostrato di sapersi muovere tra registi differenti e lo dimostra anche con questo remake, come ampiamente analizzato nella recensione di Non molto vicino. Un rifacimento che aggiunge poco o nulla all’originale e che sfrutta la parabola del bisbetico domato depurandolo di tutta la comicità dissacrante che caratterizzava l’originale. La scelta di privilegiare invece l’aspetto più malinconico e la dimensione del melò con flashback che spezzano il flusso della narrazione, va nella direzione di un racconto abbastanza prevedibile. Tom Hanks commuove e ridà linfa ad un personaggio altrimenti monocromatico.
Perché ci piace
- Tom Hanks con il suo innato talento si fa carico dell’intero film.
- Rispetto all’originale Marc Forster privilegia l’aspetto più umano e malinconico.
Cosa non va
- Un remake che nulla aggiunge alla lunga galleria di bisbetici domati.
- La comicità grottesca e dissacrante dell'originale viene quasi completamente sacrificata a favore di una racconto più avvezzo al melò e alla facile commozione.